L'ospedale, il malato e il dolore inutile
Con il progressivo invecchiamento della popolazione, i tempi
moderni hanno visto l'aumento delle malattie cronico-degenerative. Spesso
si tratta di malattie, in special modo nel caso del cancro, che si
protraggono per mesi o anni e possono comportare la sofferenza fisica
prolungata del malato. Sta cambiando tuttavia, in Italia e nei Paesi più
avanzati, la
sensibilità del mondo sanitario nei confronti del sintomo dolore.
La cultura cristiana, che in Europa è all'origine della costituzione degli ospedali e all'origine dell'assistenza sanitaria organizzata, vedeva nel dolore un modo attraverso il quale il malato espiava le sue colpe e si purificava dei propri peccati, in vista della salvezza eterna. Questa concezione riguardante l'aspetto religioso e salvifico del dolore si è trascinata dal Medioevo sino quasi ai nostri giorni. Un'impronta di questa ideologia della sofferenza la possiamo rilevare nell'architettura stessa degli ospedali: quelli edificati fino al secolo scorso erano veri e propri luoghi deputati alla sofferenza e presentavano stanzoni affollati di letti, ambienti tetri, spartani, privi di privacy, di confort e di zone attrezzate per la ricreazione dei pazienti ospitati. Rimpiazzati talora, più di recente, da nuovi edifici, tuttavia altrettanto freddi ed anonimi, privi anch'essi di molte elementari comodità. Le conquiste della medicina tecnologica, la possibilità di disporre di molecole antidolorifiche efficaci, l'affermarsi di una visione laica della vita hanno rivoluzionato l'approccio medico alla sofferenza fisica. Già nel 2001, l'allora ministro della Sanità e illustre clinico, Umberto Veronesi, aveva lanciato anche in Italia, sull'esempio delle iniziative di altri Paesi all'avanguardia, il progetto denominato eloquentemente "ospedale senza dolore". Da allora il dolore sta diventando, come la temperatura, la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca e la frequenza respiratoria, un parametro misurabile da documentare sulla cartella clinica del malato e da monitorare quotidianamente. Farmaci antidolorifici, come la morfina, un tempo guardati con sospetto dagli stessi medici, per la loro presunta tossicità e rischio di tossicodipendenza, sono oggi prescritti con maggiore frequenza e facilità. Sono caduti i tabù ideologici e gli ostacoli burocratici che ne rendevano problematica la prescrizione e la somministrazione soltanto alcuni anni fa. E' mutato soprattutto l'atteggiamento di gran parte di medici, infermieri e di tutti gli altri operatori sanitari nei confronti del malato con dolore: oggi un paziente che soffre per il dolore è considerato un segnale negativo, un indicatore di cattiva qualità dell'assistenza, di cui gli operatori devono rispondere. Mentre in passato la sofferenza veniva per lo più ignorata, concentrandosi l'attività del medico principalmente sulla lotta alla malattia, oggi il malato sofferente, in corsia o al domicilio, è considerato una sconfitta non più tollerabile. La nostra cultura ha finalmente riconosciuto il carattere disumano della sofferenza. Ogni ospedale moderno si è dotato di un Centro per la Terapia del dolore, in genere sotto la direzione di un medico anestesista, dove affluiscono pazienti con dolori cronici e intensi in cerca di una terapia efficace che ne lenisca le sofferenze. Unità di cure palliative sono poi sorte sul territorio e una nuova figura si affaccia da protagonista nel panorama della medicina contemporanea: si tratta del medico palliativista, il cui compito è seguire i malati affetti da gravi patologie croniche e di accompagnarli eventualmente verso una buona morte, la più serena e priva di sofferenze possibile. Nata con il movimento degli hospice, nella filosofia della medicina palliativa conta la persona ammalata nella sua totalità fisica, psichica, spirituale e sociale e non soltanto, come è di prassi nei reparti ospedalieri ad alta specializzazione, il danno d'organo. Il malato non è più soltanto un numero e una malattia, da vagliare in modo asettico, attraverso indagini laboratoristiche e radiologiche computerizzate, ma un essere umano da assistere con premura e umanità. Sembra dunque oggi affermarsi una visione olistica della medicina dove, senza rinunciare alle risorse tecnologiche, conta molto la qualità della relazione del paziente con i suoi curanti e con i suoi familiari ed amici. Una visione umanizzante che pare ormai contagiare beneficamente anche altre aree e branche della medicina contemporanea. Di fronte all'avanzare di questa nuova (ma in fondo antica) concezione della medicina non mancano tuttavia ostacoli, pigrizie e resistenze. Soltanto gli anni a venire sapranno dirci se questa silenziosa e promettente rivoluzione sanitaria riuscirà ad affermarsi, nell'interesse stesso della persona ammalata, del suo benessere e della sua dignità.
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Pagina aggiornata il 03.07.10 |