La disoccupazione giovanile
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In Italia il 29,1% dei
giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni è
senza lavoro, una percentuale in continua
crescita. Quello della disoccupazione giovanile
non è soltanto un problema italiano. In Spagna e
in Grecia i giovani senza lavoro sono il 51%. Si
calcola che nell'intera area Ocse, i giovani
privi di occupazione siano 11 milioni. Quello che preoccupa, nel nostro Paese, non è soltanto l'alto tasso di disoccupazione giovanile, ma anche l'alta percentuale di giovani che non lavorano né studiano, i cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), che ammontano a più di due milioni. Uno spreco di risorse che un Paese come il nostro non può permettersi. La disoccupazione non è soltanto un problema economico. Essa può tramutarsi, per chi la subisce, in un dramma esistenziale e psicologico, nell'impossibilità di progettare e realizzare la propria esistenza. Il problema della disoccupazione giovanile italiana riconosce cause piuttosto evidenti e ampiamente dibattute: la sfavorevole congiuntura economica internazionale, la crisi dell'Unione Europea, ma soprattutto gli atavici mali che affliggono la società italiana. Mali analizzati e riconosciuti, cui si tarda a porre rimedio per l'ostruzionismo di gruppi di potere e di interesse, tesi a proteggere ad oltranza i propri privilegi e le proprie rendite di posizione, a dispetto dell'interesse generale. Fece scalpore, anni fa, una lettera, pubblicata dal quotidiano La Repubblica, in cui un manager di vasta esperienza come Pier Luigi Celli invitava il giovane figlio ad abbandonare l'Italia e a cercare fortuna all'estero. Nelle lettera Celli elencava ed individuava con precisione i mali della società italiana, che la rendeva ostile alla permanenza e allo sviluppo professionale dei nostri ragazzi: la divisione della società in clan di appartenenza, il familismo amorale, il mancato riconoscimento del merito, il prevalere degli interessi particolari su quelli generali, l'irresponsabilità della classe dirigente, i monopoli economici, l'assenza di concorrenza e di una seria cultura del lavoro, la corruzione, la raccomandazione. Giorgio Celli ampliò la sua analisi della situazione critica in cui versano i giovani nel nostro Paese in un saggio, apparso nel 2010, il cui titolo, La Generazione tradita, sintetizza la condizione in cui si trovano attualmente i nostri ragazzi. Il problema della disoccupazione giovanile si affronta quindi, principalmente, sul terreno delle scelte politiche, nel varare quelle riforme tanto attese e non più dilazionabili, che finalmente renderebbero l'Italia un Paese compiutamente moderno. Detto questo, secondo me, ci sarebbero alcuni rilievi da fare e alcuni interrogativi da porsi. Per esempio bisogna chiedersi perché centinaia di migliaia di posti di lavoro a disposizione vengono occupati da immigrati. A volte si tratta di lavori dequalificati e a bassissima retribuzione, ma non sempre è così. Bisognerebbe interrogarsi sul perché molti mestieri tradizionali e in taluni casi molto redditizi, come evidenziato da un articolo del settimanale L'Espresso ("Cercasi artigiano disperatamente", 10 maggio 2012) vengono snobbati dai nostri giovani disoccupati, soltanto perché implicano la necessità di lavorare anche con le mani. In Italia sembra non si riesca più a reperire installatori di infissi, panettieri, tessitori, marmisti, pasticceri, cuochi. sarti, parrucchieri, falegnami, attrezzisti, verniciatori, conciatori e installatori di impianti, a dispetto delle cifre sulla disoccupazione. Mancano aspiranti per occupazioni che richiedono abilità manuale, ma anche conoscenza di tecniche e processi, mentre folle di giovani si mettono pazientemente in coda per essere selezionati al Grande Fratello o a un posto qualsiasi nel mondo della spettacolo, della televisione o soltanto della Pubblica Amministrazione. Si tratta probabilmente di un problema culturale. Il lavoro manuale in Italia manca di appeal: è considerato servile, l'istruzione professionale ritenuta di serie C e di fatto abbandonata, il piacere e l'orgoglio di fare con maestria il proprio lavoro sviliti. La pubblicità veicola un certo tipo di messaggio: è socialmente desiderabile soltanto l'occupazione che consente di lavorare dietro una scrivania. L'università stessa ha in questi anni magnificato i propri prodotti e promesso ai giovani che il semplice possesso del diploma di laurea avrebbe aperto loro le porte della ricchezza e del successo. Forse non è così. Forse in questo modo si contribuisce a creare fallaci illusioni e aspettative irreali. Il mercato ha dimostrato di non essere in grado di assorbire un elevato numero di persone che sanno, nel migliore dei casi, manipolare simboli. E dubito che, superata la crisi, le cose cambieranno. L'economia continua ad essere molto meno immateriale di quanto esperti e futurologi avevano pronosticato. Dall'America spira un vento diverso. La stessa cultura universitaria americana sembra orientata a una rivalutazione del lavoro manuale e molti e interessanti sono i saggi e e le testimonianze pubblicati di recente in questa direzione: da L'uomo artigiano del prestigioso sociologo Richard Sennett a Il lavoro manuale come medicina dell'anima di Matthew Crawford. In Italia notevole è il saggio del professor Stefano Micelli, pubblicato da Marsilio, dall'eloquente titolo di Futuro artigiano. L'innovazione nelle mani degli italiani. L'economia italiana d'altronde, i distretti industriali, tanto famosi da essere studiati anche all'estero come casi di successo, poggiano sulla piccola e media impresa e sull'abilità e l'eccellenza di artigiani e operai. Non si tratta di ripristinare i vecchi mestieri, ma, salvando quanto di meglio ci ha tramandato la tradizione, ibridare i vecchi lavori con un sapere tecnico, scientifico, umanistico e organizzativo di prim'ordine, recuperare la voglia di fare, di rischiare e di innovare dei giovani, la loro capacità creativa, la loro mente formata ed elastica per rinnovare un mondo del lavoro in evoluzione. I giovani di oggi, istruiti e aperti al nuovo, che viaggiano, conoscono le lingue, hanno dimestichezza con le nuove tecnologie, potrebbero rivoluzionare e modernizzare lavori e servizi, creando davvero un nuovo miracolo economico. Non sembra esserci molto spazio, invece, nella odierna società globalizzata, per coloro che si abbarbicano al loro pezzo di carta come ad un'ancora di salvezza, perché il mondo produttivo sembra riservare promesse di guadagno, successo e realizzazione soltanto per coloro che sapranno mettersi in gioco e produrre valore aggiunto nel lavoro che intraprendono, non di coloro che si limiteranno alla grigia, mediocre, svogliata prestazione standard. |
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