Un poeta inglese, Wystan Hugh Auden, riferendosi alla nostra epoca, parlò in una sua opera di "età dell'ansia". Trascorsi sessant'anni da allora, sarebbe forse più corretto definire i tempi in cui viviamo come l'"età della depressione". 

Da non confondere con la normale tristezza, il pessimismo, l'inevitabile sconforto, magari successivi a un lutto, una separazione, una bocciatura o a qualsiasi altro evento esistenziale negativo, la depressione è una diagnosi che viene fatta sempre più spesso ai nostri giorni, non soltanto negli studi degli specialisti, ma di frequente proprio nell'ambulatorio del medico di famiglia.

Ormai non esiste quasi più disturbo o malattia cui non venga riconosciuta un'origine o un'associazione con la depressione e di certo sono sempre di più i pazienti che si rivolgono al proprio medico lamentandosi di stati di malessere psicofisico difficilmente inquadrabili nelle normali classificazioni nosologiche.

Pur lasciando da parte le sottili distinzioni e sfumature contenute nelle definizioni psichiatriche, questioni da specialisti che competono appunto agli psichiatri, anche l'osservatore non professionale percepisce il diffuso e crescente disagio psichico che caratterizza la nostra epoca.

I commentatori più maligni sostengono che concorre molto ad aumentare le diagnosi di depressione l'industria farmaceutica, che ha sfornato negli ultimi decenni un numero cospicuo di farmaci antidepressivi, sollecitando poi i medici a prescriverli ai propri pazienti. Si tratterebbe insomma, ancora una volta, del dominio, tipico dei nostri tempi, della legge del profitto, che, laddove anche non ci sia domanda di nuovi prodotti, cerca di stimolarla incrementandone l'offerta.

La salute è senz'altro uno dei business più lucrosi dell'economia contemporanea e dietro le industrie farmaceutiche ci sono senza dubbio bravi ricercatori ed eminenti scienziati, ma anche accorte strategie di marketing tese a pubblicizzare capillarmente i propri prodotti. Da consumatori, sappiamo dai media dell'informazione come le aziende farmaceutiche stesse facciano presso i medici un'opera di persuasione e di pressione psicologica talmente intense da sfociare talora nella corruzione.

Il dibattito sull'efficacia dei farmaci antidepressivi è tuttora in corso e sono in molti a sostenere che la loro efficacia sia basata unicamente sulla suggestione (il cosiddetto "effetto placebo"). Chi invece giudica i farmaci efficaci, ritiene la depressione una malattia organica del cervello, causata dallo squilibrio di un particolare neurotrasmettitore, la serotonina, squilibrio che i farmaci, appunto, correggono. 

D'altronde, quella che coinvolge gli psicofarmaci è una vecchia polemica. Modificando la nostra psiche, questa categoria di sostanze genera diffidenza e pregiudizi nell'opinione pubblica. 
Non dobbiamo però dimenticare che soltanto grazie all'invenzione degli psicofarmaci molte persone con disturbi psichici hanno visto migliorare la propria vita.
La stessa chiusura dei manicomi, sancita dalla legge 180, altrimenti conosciuta come "legge Basaglia", è stata resa possibile, oltre che dall'impegno culturale di molti professionisti, operatori e malati, soprattutto dalla disponibilità di molecole che attenuano ansie, deliri e allucinazioni.

Non dimentichiamo, inoltre, che molti pazienti realmente depressi e sull'orlo del suicidio, si sono salvati e hanno recuperato il completo benessere attenendosi alla sola terapia farmacologica e raccontandoci questa loro esperienza in libri di successo.

Ma, tralasciando le questioni di "business", di "economia sanitaria" e di possibili "squilibri biochimici", dobbiamo concludere che il malessere, che attanaglia un po' tutti nella nostra epoca, dipende probabilmente dal nostro stile di vita, che ci sta allontanando sempre di più da un modo di vivere salubre e naturale. In un mondo che ci chiama continuamente alla performance, alla prestazione eccellente, alla competizione senza esclusione di colpi, ad una vita frenetica, gonfia di impegni, quando anche il nostro tempo libero diventa occasione di stress e di confronto con amici e vicini e non solo la vita lavorativa, ma anche quella familiare sembra all'insegna della perenne incertezza, molti di noi finiscono per avere la sensazione di non farcela, di non ritrovare nella propria vita felicità e significato. Ecco, forse la depressione, così diffusa oggi, proprio da questo deriva: dall'incapacità di vivere le nostre giornate costantemente ai cento all'ora, dal salutare rifiuto dello stile "maniacale", con cui conduciamo attualmente la nostra esistenza quotidiana, dal senso di vuoto interiore che una vita tutta esteriore determina.

Penso che, nel corso dell'esistenza umana, il dolore non sia soltanto un'esperienza di sofferenza priva di significato, ma che possa invece risultare un'occasione utile per completare la propria evoluzione personale. Lo hanno sostenuto e lo sostengono molti filosofi, saggi e sapienti di tutte le epoche. La sofferenza è un messaggio che ci invia il nostro corpo e proprio la crisi depressiva, con il rallentamento vitale che impone agli individui, costituisce forse una preziosa opportunità che ci offre il destino, per approfondire la conoscenza di noi stessi  e per stimolare la nostra creatività. Una discesa agli inferi che ci permette di aumentare la nostra sensibilità psicologica e di riflettere su noi stessi e sulle cose che riconosciamo davvero importanti, un modo per recuperare un io più autentico e uno stile di vita più originale e rispondente alle nostre più genuine esigenze.