I freddi giorni conclusivi del 2020 ci hanno riservato un'amara sorpresa: la morte, a distanza di un breve lasso di tempo, ad un'età ancora abbastanza precoce, di due campioni che hanno saputo entusiasmare i cuori ed accendere la fantasia di milioni di tifosi.
Due grandi campioni, due individui molto diversi sotto il profilo della personalità. L'uno, l'argentino, tutto genio e sregolatezza, un uomo che da solo sapeva trascinare una squadra, uno stadio, una città. L'altro, l'italiano, un ragazzo dall'apparenza semplice e pulita, ma ricco di talenti e di risorse nascoste.
Maradona nasce in un barrio di Buenos Aires, in uno slum, in uno di quei quartieri popolari e poveri dell'Argentina, dove il destino di un uomo sembra segnato in modo inesorabile dall'indigenza e dall'esclusione sociale. Il calcio rappresenta una delle poche forme di riscatto praticabili. Maradona dimostra subito, fin da ragazzino, una capacità speciale nel toccare il pallone. Quando gioca nel calcio professionistico, riesce a far compiere alla palla traiettorie che sembrano sfidare le leggi stesse della fisica, nemmeno immaginabili dagli spettatori. Estro, fantasia, creatività, consapevolezza dei propri mezzi e della propria superiorità caratterizzano la sua presenza sui campi di gioco. Giunge a Napoli come un salvatore, un messia, acclamato dalla folla. Porta la città partenopea, vilipesa da molti connazionali, a vincere il suo primo scudetto, nel 1987, e ai vertici del calcio internazionale. Un'intera città, considerata simbolo di caotica arretratezza, ritrova il proprio orgoglio. Quell'ometto piccolo di statura e che tende alla pinguedine, sui campi erbosi assume le sembianze di un superuomo ed eleva l'intera comunità campana ai vertici della nazione, ne mette in evidenza lo spirito organizzativo e imprenditoriale.
La vita privata di Maradona, almeno da quello che si conosce attraverso i media, è molto meno esaltante di quella calcistica. Conduce una vita disordinata, si avvicina ad ambienti equivoci, sostiene il suo genio e le sue fragilità ricorrendo all'uso di droghe. Sembra trascinato da una pulsione di morte, da una forma di autodistruzione. In pubblico è spavaldo ai limiti dell'arroganza, ma chi lo ha conosciuto testimonia di una sua generosità verso il prossimo che non conosce limiti. Le sue vulnerabilità, il suo essere "umano, troppo umano", invece di alienargli le simpatie dei tifosi, glielo rendono ancora più caro. Un dio in campo, uno come noi fuori, nella vita di tutti i giorni, con i propri fallimenti, le proprie ferite da curare, le angosce, le inadeguatezze e le insicurezze di chi si misura con il mistero dell'esistenza.
Paolo Rossi rappresenta quasi il contraltare, l'antagonista. Una personalità antitetica a quella dell'argentino. Un fisico esile, un sorriso dolce e velato di malinconia sempre stampato in faccia, quasi a cercare l'affetto e l'approvazione di chi gli sta intorno, Rossi sembra il ragazzo della porta accanto, il giovane perbene da cui non ti aspetti nient'altro che comportamenti corretti e benevoli. Cresciuto nella squadra dell'oratorio, in quel di Prato, in quella provincia toscana ricca di borghi pittoreschi e così italiani, Rossi sembra destinato a fare carriera nel mondo del calcio professionistico. Viene selezionato nientemeno che dalla Juventus. Ma poi le cose cambiano. Numerosi infortuni (lesioni ai menischi) paiono limitare per sempre i sogni di gloria e lo spingono verso destinazioni periferiche, come Como e Vicenza. A Vicenza Rossi incontra un allenatore dai modi schietti e alla mano. Viene dalle nebbie padane, fa praticare alle sue squadre un calcio "pane e salame", ottenendo risultati lusinghieri, anche se non eccezionali. Si chiama Giambattista Fabbri ed ha un'intuizione: trasforma la posizione in campo di Paolo Rossi, da ala destinata ad una carriera anonima pur se nel calcio professionistico, in centravanti. Gli osservatori più attenti sono scettici. Il ragazzo, piuttosto mingherlino, non sembra possedere le doti atletiche e tecniche del centravanti, del bomber, del finalizzatore spietato delle manovre offensive. E invece i fatti danno ragione al tecnico ferrarese. Rossi segna gol a grappoli, compensa la mancanza di fisicità con una rapidità sorprendente, gli riesce quasi sempre di anticipare il suo diretto avversario. Diventa un cosiddetto "rapinatore da area di rigore" e nel 1978 vince la classifica marcatori della serie A e porta il Lanerossi Vicenza, club abituato a lottare per non retrocedere, a un passo dallo scudetto.
Rossi adesso fa gola ai grandi club, ma una nuova disavventura lo attende: viene coinvolto in un'oscura vicenda di calcio-scommesse e squalificato per due anni. Il ragazzo, che ha già dimostrato le sue notevoli qualità giocando con la maglia della Nazionale ai Mondiali di Argentina del 1978, non è più giovanissimo. Si sta avviando alla maturità atletica e professionale e la squalifica sembra tarpargli definitivamente le ali, pregiudicando il prosieguo della sua parabola agonistica. Ma, nell'ombra, fa capolino un'altro deus ex machina: Enzo Bearzot. È il selezionatore della Nazionale. Lo chiamano "il Vecio", anche se ha soltanto cinquant'anni. Come Fabbri è un uomo che crede in antichi valori, un saggio. Malgrado Rossi sia lontano dai rettangoli di gioco da due anni, lo chiama in Nazionale. Bearzot è un conoscitore di uomini, al di là delle loro prestazioni atletiche. Di Rossi si fida e su di lui scommette. La Nazionale nel girone eliminatorio gioca male e accede ai turni successivi soltanto per il rotto della cuffia. Rossi si vede poco, sembra fuori forma. La stampa specializzata schernisce una squadra che appare senza nerbo e destinata a una ingloriosa eliminazione. Tanto più che i prossimi avversari diretti dell'Italia sono i favoriti per il titolo: Argentina e Brasile. Una missione impossibile. Inopinatamente contro l'Argentina vinciamo 2-1. Ci tocca il Brasile. In Brasile il calcio è un rito e da sempre la compagine carioca pratica il gioco più spettacolare del mondo. Nel 1982 è un team particolarmente forte, che annovera campioni leggendari come Zico, Falcao e Socrates. Sembra che i brasiliani possano fare dell'Italia un solo boccone. E invece Rossi, l'anonimo, il dimenticato, il dato per finito signor Rossi rifila tre gol al Brasile dei campionissimi. Una vittoria che rimarrà negli annali del calcio, una partita leggendaria e indimenticabile. E sarà lo stesso Pablito, il timido ed esile ragazzo della porta accanto, che ci condurrà, in quella magica estate del 1982, a vincere trionfalmente il Mondiale, restituendo all'Italia, una nazione e un popolo attraversati da sfiducia e crisi ricorrenti, euforia, entusiasmo, autostima. Rossi impartisce ai connazionali e al mondo intero una lezione fondamentale: dalle cadute ci si può rialzare, dalle ceneri si può risorgere, la realtà e il futuro riservano più possibilità di quelle che comunemente intravvediamo.
In un mondo come quello odierno, dominato dalla tecnologia, in cui gli dei e gli eroi dell'antica Grecia sono stati apparentemente espunti dalla nostra psiche, lo sport sembra una delle poche attività ancora in grado di produrre miti e leggende, narrazioni che nutrono la nostra esistenza e la nostra interiorità. Di questo dobbiamo ringraziare Diego Armando Maradona e Paolo Rossi, che hanno alimentato negli anni la nostra fantasia, la nostra immaginazione e i nostri sogni e la cui scomparsa ci ha perciò profondamente colpito e commosso.
Riferimenti bibliografici:
Brera, G., Bignotti, G., Figliolia, A.,
I Mondiali di Calcio,
Milano, Booktime, 2014
Burns, J.,
Maradona, Milano, Rizzoli, 2020
Hillman, J.,
La vana fuga dagli Dei, Milano, Adelphi, 1991
Mura, G.,
Non gioco più, me ne vado, Milano, Il
Saggiatore, 2013
Nietzsche, F.,
Umano, troppo umano, Roma, Newton Compton, 2015
Rossi, P., Cappelletti, F.,
Quanto dura un attimo, Milano,
Mondadori, 2019
Trellini, P.,
La partita. Il romanzo di Italia-Brasile, Milano, Mondadori,
2019