Italia a rischio default
Abbiamo trascorso gli ultimi mesi
a sorvegliare ansiosamente indici di borsa e notizie economiche. Ci siamo
angosciati per lo spread (la differenza di rendimento tra titoli di stato
italiani e tedeschi) che come un termometro misurava, quasi minuto per
minuto, una febbre maligna vertiginosamente in salita. Abbiamo
familiarizzato con termini della scienza economica, che molti di noi forse
avrebbero preferito continuare ad ignorare: Mibtel, bond, fondo
salvastati, credit crunch. Abbiamo seguito con assorta
concentrazione estenuanti talk-show televisivi, autentiche maratone
verbali attraverso le quali abbiamo cercato disperatamente di capirne di
più. Nel frattempo, i titoli in grassetto delle prime pagine dei quotidiani
italiani e stranieri hanno cominciato a definire l'Italia con termini
allarmanti, un paese in crisi profondissima, sull'orlo del baratro,
prossimo al fallimento. Il termine più tecnico e asettico di default,
dopo essere stato usato dai media a proposito delle vicende economiche di
Irlanda, Portogallo e da ultimo Grecia, veniva associato con sempre più
inquietante frequenza, e con nostro incredulo sgomento, al Belpaese. I
mercati finanziari hanno iniziato a dubitare della nostra solvibilità. Avidi speculatori finanziari
internazionali hanno cercato di approfittare delle
nostre difficoltà per incrementare i guadagni, mentre i nostri buoni del
tesoro, collocati per il 42 per cento all'estero, venivano considerati un
investimento a forte rischio. Le agenzie di rating, nuove perturbanti
divinità dell'Olimpo della finanza, provvedevano intanto a
declassarci. Ma perché una crisi economica così grave ha colpito l'Italia? L'Italia contemporanea appare un paese ingessato, per certi versi premoderno. Abbisogna urgentemente di riforme sulle quali gli esperti convergono, ma che non vengono attuate perché rappresenterebbero una rivoluzione nel nostro modo di vivere, metterebbero in discussione piccoli e grandi privilegi, esporrebbero interi settori economici alla concorrenza del mercato. E mentre vengono messe ai margini della vita economica le categorie più deboli, tra le quali oggi figurano giovani mai nella nostra storia così scolarizzati, una parte del paese si è arricchita a dismisura, talvolta criminosamente, spesso evadendo il fisco, quasi sempre sfruttando vantaggi e rendite di posizione. Manca in Italia uno sviluppato senso civico e il rispetto del merito, prevale un sistema di relazioni di tipo feudale quando non addirittura tribale, che ci allontana dalle abitudini di vita dei paesi a democrazia più matura. In aggiunta, la crisi italiana si innesta su una crisi più ampia del capitalismo contemporaneo, che coinvolge tutte le grandi potenze economiche occidentali, Stati Uniti compresi. Una crisi non soltanto economica, bensì anche culturale e politica. Il capitalismo sembra oggi incapace di reagire, come invece aveva fatto in passato, alle sue periodiche crisi. E mentre una minoranza esigua di persone si arricchisce a scapito della maggioranza, nell'attuale sistema economico globale la finanza, il fare denaro con il denaro, sembra prevalere sulla produzione, è diventata una variabile impazzita, un pericoloso disordine che rende sempre più urgente un governo più attento dei mercati e dei flussi finanziari. Forse l'attuale crisi economica può rivelarsi per gli italiani una preziosa opportunità per riscoprirsi una comunità nazionale, per ritrovare antiche virtù civiche, quella coesione e quello spirito di solidarietà e di responsabilità, quel dinamismo, quella voglia di faticare, di intraprendere e di riscattarsi che, per esempio, dopo il disastro della seconda guerra mondiale, ci permisero di risollevarci dalle macerie e di diventare una potenza industriale di primo piano. Riferimenti bibliografici: |
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Pagina aggiornata il 07.12.11 |