Ogni momento storico ha le proprie idee dominanti, in base alla adesione alle quali la maggioranza delle persone verifica la congruità o adeguatezza della propria esistenza. Un esercizio molto utile che ognuno di noi potrebbe (dovrebbe) intraprendere sarebbe invece quello di giudicare le idee dominanti della propria epoca in prospettiva, paragonandola con i periodi storici che ci hanno preceduto, ma anche ipotizzando e immaginando di essere i propri pronipoti nell'atto di valutare il nostro presente.
Facendo ricorso al pensiero critico e adottando una visione prospettica, possiamo dunque identificare e storicizzare le idee guida del nostro tempo, cercando di esaminarle con equilibrio e obiettività. Tale processo ci permetterebbe di liberarci finalmente di quelle idee che ci condizionano in modo negativo.

Il filosofo e psicologo Umberto Galimberti (Monza, 1942) ha scritto un notevole e ponderoso saggio sull'argomento e lo ha intitolato I miti del nostro tempo. Ci serviremo del suo libro come traccia da seguire liberamente. Le osservazioni che faremo non collimeranno sempre con quelle dell'eminente studioso, ma rispecchieranno le nostre convinzioni personali.

Iniziamo dal primo mito: la felicità. Oggi molti di noi sono infelici perche inseguono la felicità perfetta. Coltiviamo nei confronti della vita delle aspettative smisurate, siamo convinti che la felicità ci spetti di diritto. Vogliamo troppo: troppi piaceri, troppo denaro, troppo successo mondano, troppi oggetti di cui poi spesso non sappiamo che farcene. Finiamo cosi per essere eternamente insoddisfatti e ci lasciamo sfuggire quegli istanti di felicità autentica e rigenerante che spesso possono darci le cose semplici, le esperienze quotidiane.

Altro mito: il mito dell’identità sessuale. La scienza ci ha abituato alle classificazioni, a volte esageratamente rigide. Ma quando si ha a che fare con gli esseri umani, etichette e classificazioni non reggono. Ciascuno di noi porta in sé il principio maschile e femminile. Ciascuno di noi è un essere unico e irripetibile. Le distinzioni binarie, del tipo etetosessuale-omosessuale, vanno superate in nome delle centomila sfumature in cui si manifesta la nostra affettività.

Il mito della giovinezza. La giovinezza è un’età à della vita affascinante, ma spesso problematica, tutt'altro che spensierata. La nostra epoca esalta in maniera univoca la giovinezza, per cui restare per sempre giovani è diventato l'obiettivo di tutti, quello cui i media e l'ideologia dominante ci esortano. Se la gioventù è mitizzata, la vecchiaia è svalutata e accostata a concetti quali declino e inutilità. Altre culture hanno invece valorizzato l'esperienza e il sapere del vecchio. Non di rado un vecchio può avere una visione dei problemi piu ampia e profonda di un giovane. Era quello che credeva, ad esempio, uno dei più grandi saggi della storia dell'umanità: Confucio. Inoltre, come osserva il filosofo e psicologo James Hillman (Atlantic City, 1926 - Thompson, 2011), la vecchiaia porta a compimento il nostro carattere, rivela chi siamo veramente.

Il mito dell'intelligenza. La scuola privilegia un solo tipo di intelligenza, quella, per intenderci, che misurano i test somministrati dagli psicologi: l'intelligenza linguistica e logico- matematica, abbinata a un modo di pensare convergente. In realtà lo psicologo Howard Gardner (Scranton, 1943), che allo studio dell’intelligenza ha dedicato l’intera sua vita di studioso, ha valutato che esistano molti altri tipi di intelligenza (musicale, corporea, astratta o spaziale, intrapersonale, interpersonale, ambientale o naturalistica, spirituale o esistenziale), per cui definire un individuo intelligente risulta essere un'affermazione alquanto generica. In più l'intelligenza è sopravvalutata. Per condurre una vita soddisfacente talvolta l'intelligenza costituisce un ostacolo, se non è accompagnata da altre virtù, quali la perseveranza, l'empatia, la passione, l'equilibrio armonioso di tutte le facoltà psicofisiche.

Il mito del potere. Nelle società occidentali tardo-moderne non ci misuriamo quasi più con la crudeltà monolitica della tirannide, ma il potere è diventato più diffuso e pervasivo. Poiché l’economia è diventata la teologia della nostra epoca, il potere attuale si manifesta soprattutto all'interno delle aziende e delle organizzazioni, oramai modello di tutte le relazioni odierne, improntate all’utilitarismo, dove il potere viene occupato da personalità narcisistiche, non di rado patologiche, prive di immaginazione, empatia e creatività. A tutti noi vengono imposti i concetti di efficienza e di prestazione. Ci si muove nella stagnazione del già conosciuto, lo status quo regna sovrano. Vige un’incapacità di esercitare un pensiero originale, complesso e creativo, capace di produrre cambiamenti significativi e contribuire davvero al benessere collettivo. Siamo tutti schiavi, leader compresi, dell’adesione passiva alle idee dominanti, incapaci di pensiero critico e di immaginare scenari innovativi.

Il mito della psicoterapia. Emblematico il titolo di un libro del grande psicologo americano James Hillman: Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio. Viviamo in una società terapeutica. Non di rado ogni deviazione, pur legittima, dagli standard accettati della normalità viene medicalizzata o psicologizzata. Si tratta di quello che il sociologo Frank Furedi (Budapest, 1947) chiama "il nuovo conformismo". Vivacità, preoccupazioni, timidezza, riservatezza sono oggi diventate patologie da curare. L'individuo deve adattarsi alle richieste della società, mentre ogni difficoltà della vita sembra richiedere giocoforza un intervento terapeutico esterno. Eppure la questione fondamentale, per ognuno di noi, sarebbe (è) come vivere, non come farsi curare. Si tende a minare l'autonomia dell'individuo, lo si diffida dall’attingere alle sue risorse interiori, gli si impedisce di fare riferimento alla religione, alla filosofia, alla letteratura, alla morale personale o al suo intelletto e alle sue intuizioni per prendere decisioni e condurre un’esistenza degna. Al contrario, le sue scelte, nella nostra epoca, devono essere condizionate e assoggettate al parere degli esperti. Inoltre, invece di incidere con scelte politiche appropriate sui problemi sociali che generano sofferenza, si preferisce ridurre ogni problema a presunte difficoltà interiori del singolo. E in una società malata, le persone continuano così a soffrire.

Il mito della tecnica. Si tratta del mito più potente di tutto l'Occidente, quello che gli ha permesso di raggiungere l'egemonia mondiale. Se la tecnica ci ha permesso di conquistare traguardi incredibili, permettendoci di vivere una vita confortevole, non possiamo nasconderci che la sua pervasività genera inquietudini difficilmente sopibili.
Se la tecnica da mezzo diventa un fine, l’uomo diventa un mezzo. La nostra umanità viene svilita e noi non siamo più esseri umani completi ma funzionari degli apparati tecnici. La tecnica ha scalzato la politica, che non è piu il luogo delle decisioni. Non a caso è sempre piu in voga il “governo dei tecnici”. Ma la tecnica sa come fare le cose, non se e perché devono essere fatte. Soprattutto la tecnica ha neutralizzato l'etica e ha generato una vera e propria mutazione antropologica, modificando il nostro modo di pensare, di sentire e di agire. Per esempio, i compiono azioni attenendosi scrupolosamente a un mansionario senza interrogarsi sugli scopi e senza alcuna responsabilità circa gli stessi. Come sottolinea il filosofo Gunther Anders (Breslavia, 1902 - Vienna, 17 1992), il problema non è più: "Che cosa possiamo fare noi con la tecnica", ma "Che cosa la tecnica può fare di noi".

Il mito del mercato. Il mercato è un’istituzione, che la borghesia ha fatto fiorire e che è estremamente efficace nel favorire la produzione di merci e di ricchezza materiale. Il mercato risponde a criteri di razionalità, ma si tratta di una ragione strumentale e calcolante. Nella logica del mercato, gli individui sono ridotti a portatori di interessi, a rappresentanti di merci, a maschere, a ruoli lavorativi che impediscono la piena estrinsecazione della loro personalità. Gli individui, ancora una volta, devono sottomettersi alle esigenze degli apparati produttivi, devono dimostrarsi impiegabili e vengono valutati per le loro prestazioni lavorative. La loro identità finisce con il coincidere con la loro funzione. Il mercato poi contribuisce alla creazione di falsi bisogni e promuove un consumismo distruttivo. All'interno delle organizzazioni contemporanee, le persone sono ruote di un ingranaggio, i cui scopi talvolta sono opachi e sfuggono alla comprensione dei singoli. L'essere umano è qualcosa di più e di diverso dal ruolo che ricopre, dalla funzione che svolge, dalla prestazione che offre, dal consumo che ostenta.

Il mito della crescita. Il nostro sistema economico si basa sul ciclo produzione-consumo: bisogna produrre sempre di più per consumare sempre di più. Il che comporta un tipo di vita che vede il lavoratore sottoposto a ritmi stressanti, deprivato del proprio tempo, impossibilitato a godere pienamente delle gioie della vita. Ciascuno di noi finisce con l’assomigliare a un criceto sulla ruota. Ecco perché i libri dell'economista francese Serge Latouche (Vannes, 1940) esercitano sui lettori un irresistibile fascino. La sua proposta di decrescita felice, con un allentamento dei ritmi usuranti attuali, ci seduce. L'attenzione spasmodica all’incremento del PIL e a una crescita economica perpetua confligge con il benessere reale delle persone e con la sopravvivenza dell'ecosistema. Persino molti illustri economisti l'hanno capito. L' economia deve tornare al servizio dell’uomo, non l'uomo soggiogato all'economia.