La nostra è un’epoca vissuta all’insegna della competizione distruttiva che non conosce esclusione di colpi, del carrierismo che se ne infischia di ogni ostacolo morale, del classismo esasperato, dell'indifferenza verso la sorte degli esclusi, dei cosiddetti “perdenti”, degli ultimi, un’età che sembra riconoscere il significato supremo della vita nell’affermazione di una superomistica e un po’ volgare volontà di potenza che se ne frega di tutto e di tutti. ”Mors tua, vita mea” sembra il motto che ispira la vita di molti, troppi contemporanei.

Il neoliberismo, promosso sin dalla fine dagli anni Settanta da politici come Margaret Thatcher e Ronald Reagan, tiene in grande considerazione il denaro, il successo economico, l'indipendenza individuale a scapito del benessere generale della società. Ciò ha provocato guasti di cui tutti paghiamo le conseguenze. Le economie occidentali si dibattono ormai da anni in una crisi di cui non si intravede ancora la fine, una crisi dovuta soprattutto all’avidità irresponsabile di pochi privilegiati. La disuguaglianza tra ricchi e poveri è vertiginosamente cresciuta, la vita del ceto medio si è fatta sempre più dura, dominata dall’insicurezza, dall’ansia e dalla precarietà, mentre intere generazioni si vedono negate le loro legittime aspirazioni ad un futuro dignitoso.

Sembra essersi molto ridotto lo spazio, nella vita quotidiana, per comportamenti ispirati alla gentilezza, alla benevolenza, all'altruismo, alla fraternità. “Noi non si poté essere gentili” affermava il poeta e drammaturgo tedesco Bertold Brecht, ai “tempi bui” e drammatici della dominazione nazista, con un’affermazione che paradossalmente si è trasformata nell’epitome del nostro tempo. Eppure, anche se fingiamo di non rendercene conto, fare del bene agli altri ci riempie di gioia e sembra rispondere ad un nostro bisogno fondamentale. Atteggiamenti di benevolenza e di cooperazione verso il prossimo sono stati riscontrati da biologi e psicologi già durante il precoce sviluppo infantile, e persino diverse specie animali manifestano comportamenti che assomigliano molto alla compassione e al soccorso dei propri simili in difficoltà.

La gentilezza, dunque, associata da troppi oggigiorno alla debolezza, sembra essere una dimensione che, pur facendo parte dell’espressione autentica del nucleo più profondo della nostra personalità, viene di frequente rimossa in ossequio agli imperativi imposti da una società competitiva. L’essere umano è senza dubbio una unità biopsicosociale complessa dove convivono pulsioni, aspirazioni, desideri, sentimenti contraddittori e ambivalenti, dove aggressività e amorevolezza coesistono in un miscuglio spesso inestricabile. Per secoli pensatori e filosofi si sono interrogati sulla bontà e sulla cattiveria dell’uomo, sulla sua naturale inclinazione alla socievolezza e sul suo egoismo, arrivando spesso a conclusioni opposte. Se per Thomas Hobbes la vita non è altro che “la guerra di tutti contro tutti”, per David Hume la generosità abita stabilmente nel cuore dell’uomo. Se per Schopenhauer “gli uomini sono cattivi”, per l’imperatore-filosofo romano Marco Aurelio la benevolenza è la più grande gioia dell’umanità.

Fermo restando che essere gentili non significa trasformarsi in persone ingenue, che si rendono facili prede di prepotenti, profittatori, manipolatori e truffatori di ogni genere, spregevoli personaggi da cui ci si deve sempre difendere senza indugio, forse esiste anche nella società di oggi lo spazio per iniziative che riaffermino il valore della gentilezza, della pietà, della solidarietà, dell’interesse per le sorti del prossimo più sfortunato. Non si deve promuovere soltanto quella cortesia di facciata, quei sorrisi d’ordinanza propagandati a fini commerciali dai servizi customer care delle grandi aziende. Si può fare di più e meglio per rendere più vitali e solidali le nostre esistenze.

Per esempio, appoggiando quelle forze politiche e quelle organizzazioni nazionali e sovranazionali che si battono per i diritti dell’uomo, per un sistema di Welfare sostenibile ma efficace nel combattere la povertà e l’esclusione, per portare conforto, aiuto, sostegno ai malati, ai deboli, agli emarginati e ai sofferenti di ogni genere.

Mentre noi, in virtù dei forti condizionamenti ideologici e culturali cui siamo sottoposti, facciamo quotidianamente resistenza alla naturale gentilezza, che sgorga dalla nostre anime, niente ci offende più della mancanza di riguardo nei nostri confronti. Disse in un discorso tenuto ai laureandi della Syracuse University nel maggio 2013 lo scrittore George Saunders: "Quello che mi dispiace di più sono le volte in cui non sono stato gentile. (...) Nella vita chi ricordate con più affetto, con più innegabile simpatia? Le persone che sono state più gentili con voi".

Quindi è soprattutto nella vita di tutti i giorni, nelle situazioni magari anche più banali, che noi dobbiamo sperimentare e riscoprire i valori e i piaceri della gentilezza e dell’empatia, consapevoli della nostra sorte comune, della nostra reciproca, umana vulnerabilità. In famiglia, a scuola, per strada, dobbiamo imparare a scansare l’egoismo e l’indifferenza, e prenderci cura non solo di noi stessi, ma anche degli altri, con un atteggiamento che mischi l’attenzione con la generosità. Far, insomma, della gentilezza la nostra religione, come ci consiglia un grande saggio e mistico del nostro tempo, il Dalai Lama.

Riferimenti bibliografici:
A. Phillips, B. Taylor, Elogio della gentilezza, Milano, Ponte alle Grazie, 2009
G. Saunders, L'egoismo è inutile. Elogio della gentilezza, Roma, Minimum Fax, 2014