Era il pomeriggio del 23 maggio 1992, quando in località Capaci, 572 chilogrammi di tritolo fecero esplodere le auto di Giovanni Falcone e degli uomini della sua scorta. Nell'attentato morirono, oltre al magistrato siciliano, anche la moglie, Francesca Morvillo, pure lei magistrato e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro
Neppure due mesi dopo, il 19 luglio, l'esplosione di una Fiat 126, parcheggiata in Via d'Amelio a Palermo e imbottita di esplosivo toglie la vita, dilaniandone il corpo, a Paolo Borsellino, che si stava recando in visita alla anziana madre. Anche in questa occasione perdono la vita, insieme al magistrato, ben cinque agenti della scorta.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano due professionisti siciliani, per certi versi simili a ciascuno di noi, con le loro preferenze e le loro umane debolezze. Falcone amava il nuoto, le collezioni di papere e di penne stilografiche, il caffè, il whisky di qualità, le battute umoristiche e gli amabili scherzi tra amici. Borsellino aveva un debole per le piante, gli piacevano le passeggiate in bicicletta, il mare, il calcio e la buona tavola. Detestava la vita mondana e coltivava poche ma profonde amicizie.
Di diverso da noi possedevano una dirittura morale integerrima, un acuto senso del dovere, un rispetto assoluto dei cittadini e delle istituzioni che rappresentavano e il coraggio tipico dell'eroe che supera la legittima paura.
Due vite parallele, le loro. Pochi mesi li dividevano: Falcone era nato il 18 maggio 1939, mentre Borsellino il 19 gennaio 1940. Entrambi provenivano da famiglie palermitane agiate, borghesi. Entrambi avevano frequentato il liceo classico e conseguito, giovanissimi, a 22 anni, la laurea in Giurisprudenza. Il caso li aveva fatti incontrare e diventare amici.
L'occasione fu la costituzione, nel 1983, di un pool antimafia, diretto da Antonino Caponnetto, che includeva cinque magistrati, tra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Fortissimamente voluto da Falcone, che aveva capito come la criminalità organizzata si potesse battere soltanto con un'organizzazione altrettanto forte e centralizzata, il pool antimafia usava metodi moderni e aggiornati. Sorto per rispondere efficacemente alla spirale di violenza e di sangue con cui la mafia aveva investito la Sicilia, con un susseguirsi impressionante di omicidi, che spesso colpivano giudici, colpevoli soltanto di svolgere con onestà e impegno il proprio lavoro, il pool antimafia allargò le inchieste oltre la Sicilia, fino a spingersi in America, seguendo i movimenti bancari e il tragitto che compivano i profitti realizzati col narcotraffico.
La mafia, infatti, aveva abbandonato la sua dimensione rurale e regionale delle origini. Le estorsioni a danno di commercianti ed imprenditori locali non garantivano più ai nuovi boss quei profitti, che invece potevano essere realizzati con la produzione e il traffico di stupefacenti. L'"onorata società" si era globalizzata e militarizzata, aveva costituito una sua forza paramilitare, con cui esercitava una violenza mai vista prima. Era diventata uno stato dentro lo Stato.
Inoltre gli ingenti profitti che andava realizzando, dovevano in qualche modo essere investiti, riciclati, ripuliti in attività dall'apparenza legale, in principal modo nel settore dei lavori pubblici e delle costruzioni, con la complicità delle banche. Ecco che la nuova mafia non può essere più quella cui si era abituati negli anni Cinquanta, dimensionata al signorotto di paese, ma cerca di reclutare professionisti, avvocati, esperti di finanza, commercialisti. Era nata la "mafia dei colletti bianchi", in grado di espandersi anche al Nord ricco e produttivo, quando non addirittura agli Stati Uniti e alla Colombia. Esisteva, accanto alla mafia propriamente criminale, una "zona grigia" di persone insospettabili e apparentemente rispettabili che dall'economia mafiosa traeva guadagno.
Stimatissimo a livello internazionale, interlocutore privilegiato dell'FBI, del Presidente Bush sr. e di Rudolph Giuliani, Giovanni Falcone, che parlava un'eccellente inglese appreso da autodidatta, era l'uomo di punta del pool e numerosi furono i suoi successi: l'arresto a New York del boss dei boss John Gambino, ma soprattutto il coinvolgimento nelle indagini dei cosiddetti pentiti, in particolar modo pentiti eccellenti, come Tommaso Buscetta, che era a parte di tutti i segreti di Cosa Nostra.
Fatalmente la nuova mafia, per dare impulso alle sue attività imprenditoriali, aveva bisogno di controllare le decisione politiche, attraverso propri referenti di fiducia. Necessitava di complicità all'interno stesso delle istituzioni dello Stato. Si trattava del cosiddetto "terzo livello", quello che Falcone, Borsellino, Caponnetto e gli altri due componenti del pool, Peppino Di Lello e Leonardo Guarnotta si accingevano a disvelare. Le indagini avevano già portato all'arresto dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e dei cugini Salvo, noti in Sicilia per le loro altolocate frequentazioni politiche. Si trattava di proseguire verso l'alto. E gli storici presumono che proprio queste indagini estese al "terzo livello", che avrebbero probabilmente coinvolto personalità di assoluto rilievo della vita nazionale e istituzionale, siano state la causa principale della reazione terroristica di Cosa Nostra.
Dietro agli attentati, che costarono la vita a Falcone e Borsellino, qualcuno paventa addirittura la mano dei servizi segreti deviati oltre che pezzi delle istituzioni infedeli, che non intendevano rinunciare al proprio potere acquisito illegalmente.
Di certo l'attività del pool antimafia aveva portato al cosiddetto maxiprocesso, celebrato nel 1986 nell'aula-bunker di Palermo, un evento nella lotta alla criminalità mai visto prima: furono comminati 19 ergastoli e complessivi 2665 anni di carcere per 460 imputati, sentenza confermata in Cassazione. Falcone aveva poi chiesto e ottenuto per i mafiosi un trattamento carcerario più duro, che impedisse loro di continuare comodamente dal carcere a dirigere le attività criminali, noto come articolo 41 bis.
Nonostante gli innegabili successi ottenuti, Falcone venne osteggiato dai vertici della Giustizia italiana. Spesso fu ostacolato, deriso, umiliato. La sua carriera subì un arresto, al punto che dovette ad un certo punto abbandonare la Sicilia e le sue promettenti indagini per accettare un incarico più modesto al Ministero, a Roma. Non gli veniva perdonato il suo impegno e alcuni colleghi cominciavano ad invidiare la sua popolarità, l'attenzione che gli dedicavano i media, il suo essere diventato un personaggio pubblico, il fatto stesso che girasse con la scorta, avvertita da taluni come una sorta di status symbol. Lui e Borsellino furono accusati di essere dei professionisti dell'antimafia (storica la polemica, forse fraintesa, innescata dallo scrittore Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera), di fare un uso disinvolto dei pentiti, di aver trasformato il pool in un centro di potere, di aver piegato la giustizia a finalità politiche di parte, persino di essere animati dalla volontà di danneggiare l'economia siciliana.
Il pool in pochi anni venne smembrato; le investigazioni, prima centralizzate, disperse in mille rivoli. Inquirenti più anziani, ma meno competenti in materia di mafia, vennero preferiti a Falcone.
Una vicenda tipicamente italiana. Se non fosse che immediatamente dopo le stragi di Capaci e Via d'Amelio, un'ondata di indignazione popolare scosse l'opinione pubblica. Soprattutto le nuove generazioni protestarono di non volersi sottomettere al giogo mafioso.
A distanza di anni, possiamo
dire che Falcone e Borsellino rappresentano un modello alto cui
gli italiani e i giovani in particolare possono ispirarsi. Ci
hanno lasciato una solida eredità spirituale che dobbiamo
raccogliere e coltivare. Di
loro ammiriamo l'amore per il duro lavoro, la tenacia, lo
spirito di sacrifico, ma soprattutto il rispetto assoluto di
valori come la legalità e la giustizia, senza i quali
difficilmente una società democratica può prosperare. Da ultimo
un raro senso del dovere, una tensione morale altissima che non
arretra neppure di fronte al pericolo.
Si dice che una delle massime preferite di Giovanni Falcone
fosse questa, attribuita a John Fitzgerald Kennedy:
"Un uomo fa quello che è suo dovere
fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano
gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di
tutta la moralità umana".
Mentre il motto di Borsellino era: "Chi ha paura muore ogni
giorno, chi non ha paura muore una volta sola".
A memento dei posteri!
Riferimenti bibliografici:
Ayala, G.
Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e
Borsellino, Milano, Mondadori, 2008
Falcone M., Barra, A.
Giovanni Falcone un eroe solo. il tuo lavoro, il nostro
presente. I tuoi sogni, il nostro futuro, Milano, BUR, 2013
Li Vigni, B.
Falcone-Borsellino e i segreti di Stato-mafia, Roma, Sovera
Multimedia, 2013
Pasquini, M.
Falcone e Borsellino. Due vite per la giustizia, San Lazzaro
di Savena (BO), Area 51, 2016
Viviano, F., Ziniti, A.
Visti da vicino. Falcone e Borsellino gli uomini e gli eroi,
Reggio Emilia, Aliberti, 2012