I giovani d'oggi sono per la maggior parte assennati e alcuni arrivano a pianificare la loro vita persino nei dettagli più minuti. Sanno già da molto piccoli cosa faranno da grandi e a questo progetto (che assomiglia molto a un business plan aziendale) si attengono rigorosamente. Ministri, politici, grandi firme della carta stampata sollecitano i ragazzi a porsi obiettivi e a darsi da fare per concludere gli studi nel minor tempo possibile, macinando nozioni, interrogazioni ed esami. A scuola, l'errore viene brutalmente stigmatizzato e punito con un brutto voto, impedendo così allo studente di imparare dall'esperienza. Come trovare allora la gioia di apprendere e di conoscere? E il tempo per assimilare ed elaborare criticamente quanto appreso?
Per carità, è tutto forse molto giusto e razionale. Ma così facendo, in virtù di questa "porta stretta" che ci viene imposta, quasi mai rimane spazio per gli intoppi, i ripensamenti, le false partenze, la faticosa ricerca della propria identità e della propria "voce" personale. Secondo i dettami dell'autorità, dobbiamo tutti infelicemente salire sulla ruota del criceto e correre senza mai voltarci indietro, inquadrati, irreggimentati, omettendo domande e dubbi, senza mai riconsiderare il senso di quello che facciamo.
Ecco, dobbiamo riconoscere che troppo spesso il successo mondano ed esteriore arride a chi si conforma alle regole e alle ideologie mainstream, a chi si riduce a docile rotella dell'ingranaggio, a chi non mette mai in dubbio la bontà dei costrutti che determinano le proprie scelte, all'"uomo a una dimensione", descritto da Herbert Marcuse e dominato dal principio di prestazione. Mentre lo studio della storia e dei grandi mutamenti, in qualsiasi campo e disciplina, ci insegna che i protagonisti e i creativi non sono mai i conformisti, ma coloro che sanno sfidare i dogmi del momento, sanno contrapporsi al pensiero dominante, sanno percorrere vie nuove, inusuali, spesso fuori dal coro e dai sentieri del riconoscimento sociale. L'innovazione e il progresso (se ha un senso ancora questa parola) sono spesso opera di outsider.
È proprio il caso di rimarcarlo: ci sono fallimenti grandiosi e successi meschini. E poi considerare la vita, quello che abbiamo di più prezioso, secondo la contrapposizione successo/fallimento è profondamente sbagliato. La vita è qualcosa di molto più complesso, fluido, sorprendente, misterioso della semplice contabilità delle nostre vittorie e delle nostre sconfitte. L'esistenza non può ridursi a bilancio economico dei ricavi e delle perdite. È questo un modo distorto di considerare le umane vicende.
Per tali motivi non bisogna avere paura del fallimento, e del rischio ( ponderato) insito nelle nostre scelte. Fallire non è la fine del mondo e nemmeno della nostra vita. Cadere non impedisce di rialzarsi. E spesso, dopo una sconfitta, una caduta, un fallimento la nostra esistenza può imboccare itinerari più gratificanti, possiamo riconsiderare le nostre priorità, possiamo identificare con maggiore sicurezza le nostre passioni e i nostri talenti, scartando così le "false vocazioni", imposteci dai condizionamenti esterni, possiamo procedere verso la nostra autorealizzazione e diventare più saggi e creativi. E produttivi. Gli sportivi veri lo sanno: si impara più dalla sconfitta che dalla vittoria. E lo sa anche la grande letteratura. Scriveva Samuel Beckett: "Ho provato. Ho fallito. Prova ancora. Fallisci meglio".
Riferimenti bibliografici:
C. Pepin,
Il magico potere del fallimento. Perché la sconfitta ci rende
liberi, Milano, Garzanti, 2017
M. Recalcati,
Elogio del fallimento. Conversazioni su anoressie e disagio
della giovinezza, Erickson, 2011