Le cause vanno ricercate nelle speculazioni finanziarie operate da avventurieri spacciatisi per uomini d'affari durante i cosiddetti "anni ruggenti" del capitalismo e dalla caduta dei prezzi agricoli sul mercato americano, in seguito alla migliorata concorrenza europea.
Dietro però ci sono cause strutturali ancora più importanti : tutto il mondo appare subalterno al capitale americano; i Paesi sviluppati fanno scarsi investimenti nei maggiori settori produttivi, mentre i salari consentono un basso potere d'acquisto e il tasso di disoccupazione è elevato; manca, sia in America che in Europa, un efficace controllo sul sistema bancario privato.
La crisi
determina degli effetti catastrofici, gettando decine di
migliaia di lavoratori, di risparmiatori e di imprenditori sul
lastrico. Il 24 ottobre 1929 viene ricordato come il giorno del
crollo della Borsa di New York: milioni di azioni vengono
scambiate a prezzi stracciati, distruggendo intere fortune,
mentre gli esperti faticano a capire la gravità della situazione.
Nei mesi successivi centinaia di banche americane fallirono,
mentre furono costrette alla chiusura imprese di tutti i tipi,
industriali, commerciali e agricole. L'esito furono dieci
milioni di disoccupati nelle tre economie più importanti del
pianeta (Stati
uniti, Gran Bretagna e Germania), mentre in Italia la
disoccupazione aumentava di oltre il 50%.
Il Presidente
americano allora in carica, il repubblicano Herbert Hoover si
limitava a minimizzare la crisi e a propagare nel Paese un
infondato ottimismo.
Consci dell'incapacità di Hoover di rispondere con efficacia
alla gravità del momento, gli elettori americani scelsero, alle elezioni
presidenziali del 1932, il democratico Franklin Delano
Roosevelt, già governatore dello stato di New York.
Il nuovo Presidente capì subito che la situazione era disperata
e, insieme a un gruppo di esperti (il cosiddetto brain trust),
elaborò una serie di misure per rilanciare il Paese, un piano
economico su vasta scala, noto come New Deal ("nuovo patto" o
"nuovo corso").
Il New Deal contraddiceva parzialmente i principi liberisti che avevano da sempre ispirato la teoria e la pratica economica negli Stati Uniti, la cosiddetta politica del laissez faire, cioè la fiducia che i mercati, tramite la competizione economica, si sarebbero autoregolati senza bisogno di alcun intervento statale o di organismi esterni.
Al contrario Roosevelt, in accordo con le teorie dello studioso inglese Keynes, programmò un massiccio intervento dello Stato nell'economia che prevedeva un ampio piano di lavori pubblici, volti alla costruzione e manutenzione di infrastrutture, un aumento dei salari e una riduzione dell'orario di lavoro, un intervento sui prezzi per eliminare la concorrenza sleale, il riconoscimento dei sindacati, aiuti finanziari agli agricoltori in difficoltà, controllo e riorganizzazione delle banche da parte dello Stato. I buoni risultati ottenuti permisero a Roosevelt di allargare il proprio consenso e di venire riconfermato alla Presidenza anche alle elezioni del 1936.
La crisi del Ventinove ricorda quella che sta attanagliando attualmente parte delle economie contemporanee. L'economista Galbraith sostiene, nell'opera da lui dedicata alla Grande Depressione (Il grande crollo, 1954) che tutte le crisi del capitalismo si assomigliano e seguono il medesimo svolgimento: si crea una bolla finanziaria che a un certo punto esplode.
Il tracollo del Ventinove ispirò la letteratura, il cinema e la fotografia del tempo. Un suo epico cantore fu lo scrittore americano John Steinbeck (1902-1968), che nei suoi romanzi, tra i quali spicca Furore, pubblicato nel 1939, seppe raccontare con impareggiabile arte l'odissea che milioni di americani dovettero affrontare durante la Grande Crisi.
Riferimenti bilbiografici:
J.K. Galbraith,
Il grande crollo, Milano, BUR,
2003
G. Sabatucci, V. Vidotto, Le età del presente, Bari-Roma, Laterza, 1995
J. Steinbeck,
Furore, Milano, Bompiani, 2013
R. Villari, Storia contemporanea, Bari-Roma, Laterza,
1975