Dopo aver letto Storia del camminare, ed averne ricavato un’impressione molto favorevole, mi sono incuriosito di questa autrice e ne ho voluto leggere l’autobiografia.
Californiana, Rebecca Solnit è scrittrice, giornalista, storica, ambientalista, femminista e critica d’arte. In queste sue memorie si dilunga sulla questione femminile, su quanto il mondo sia costruito per gli uomini e quanto le donne debbano aderire alle aspettative maschili, in materia di corpo e di mentalità. Di come le donne siano poco sicure nella loro vita e debbano sfuggire costantemente alle mire di maschi predatori:
“Dipendi dagli uomini e da ciò che pensano di te, impari a guardarti continuamente allo specchio per vedere come appari ai loro occhi, ti esibisci a loro beneficio, e quest’ansia di esibizione forma o deforma o blocca del tutto ciò che fai, dici e, a volte, pensi. Impari a pensare a cosa sei secondo i parametri di quello che vogliono loro, e cercare di incontrare i loro gusti diventa una pratica radicata dentro di te al punto da farti perdere di vista ciò che vuoi davvero, sino a farti sparire a te stessa nell’arte di apparire agli altri e per gli altri”.
Molte intelligenti osservazioni la Solnit le riserva alla lettura e alla scrittura, con alcune considerazioni molto acute sull’importanza di leggere libri e, nell’atto di scrivere, di trovare un proprio stile a partire dalla propria personale visione del mondo:
“C’è qualcosa di sbalorditivo nella lettura, in quella sospensione del tempo e dello spazio in cui viaggiamo in altri tempi e altri spazi. È un modo di sparire da dove ci troviamo per entrare nella mente dell’autore, ma rapportandoci con lui, così da far nascere qualcosa tra la nostra mente e la sua. Traduciamo le sue parole in nostre immagini, volti, luoghi, luci e ombre, suoni ed emozioni. [...] È’ il lettore a far vivere il libro”.E ancora:
“[...] tutto questo accadeva dentro di me. Le storie che volevo scrivere e la persona che le avrebbe scritte non era ancora nata. Sapevo chi ammirare, non ancora chi ero. Non puoi scrivere neanche una riga se non hai una visione del mondo”.
Da ragazza, per vivere, la Solnit fa molti lavori umili, come la receptionist in un piccolo hotel, la cameriera in un ristorante italiano, piccoli lavori impiegatizi, mentre scrive articoli e recensioni su riviste sconosciute. Per un periodo campa con un sussidio di disoccupazione. Non ha niente da perdere e perciò si sente libera. Prende presto coscienza di amare i libri sopra ogni altra cosa e oltre a leggerli vuole anche scriverli.
Si accorge di amare più i margini, le località periferiche rispetto al centro. Ritiene che è proprio ai margini - di qualsiasi tipo essi siano - che autorità e ortodossie si indeboliscono.
Interagisce con Burroughs e Ferlinghetti, due monumenti della beat generation, in un clima che sembra dominato dalla creatività e dall’autodistruzione.
Affermarsi in campo editoriale è difficile e la Solnit subisce critiche feroci e autentici sabotaggi; in una certa misura si sente discriminata perché donna:
“Sentiamo perlopiù le voci delle persone che sono sopravvissute alle difficoltà e che hanno superato gli ostacoli, e questo viene spesso addotto come prova del fatto che le difficoltà e gli ostacoli non erano così brutti o che ciò che non ti ammazza ti rende più forte. Ma non tutti ce la fanno, e ciò che prova a ucciderti ti priva di un sacco di energie che potresti usare meglio altrimenti, sfiancandoti e riempiendoti di angoscia”.
Avvicinandosi ad ambienti LGBTQ si rende conto di quanti pregiudizi, limitazioni, convenzioni sociali soffochino le nostre vite, le renda soggette a una triste omologazione. È una vera e propria scuola di libertà quella che la Solnit frequenta, allargando il proprio spettro di amicizie. La cultura e le nuove idee e sensibilità sono in grado di costruire una realtà altra, diversa.
Liberazione, rivoluzione, sfida, cambiamento sono termini che ricorrono spesso nel racconto della Solnit. Una vita, quella dell’autrice, vissuta all'insegna della continua trasformazione.