fotoTra le figurine dei calciatori più ambite quando ero bambino c’era quella di Omar Sivori, non perché fosse introvabile quanto per l’aura leggendaria che circondava il giocatore, per il carisma e il piacere estetico che comunicavano quel suo modo unico di stare in campo.

Sivori giunse in Italia nell’estate del 1957, proveniente dal River Plate, acquistato proprio dal club in cui egli anelava di giocare sin da ragazzino: la Juventus. Per accaparrarselo la società torinese mise sul piatto 10 milioni di pesos (circa 190 milioni di lire), una cifra record per il calcio d'allora.
Il fuoriclasse argentino ha origini italiane, in parte liguri, in parte abruzzesi. Calzettoni arrotolati alla caviglia, altrimenti detti “alla cacaiola”, Sivori si distingueva in campo per la creatività, l’imprevedibilità, la fantasia, la capacità di districarsi con il pallone incollato ai piedi tra selve di tibie e piedi avversari, per il dribbling, le finte che disorientavano i difensori, il controllo perfetto della palla, le abilità di giocoliere.
Era considerato il “re del tunnel”, quel far passare beffardamente il pallone tra le gambe di chi lo marcava, una giocata difficile quanto umiliante per chi la subiva.
Vederlo giocare era come ammirare l’opera di un grande artista: un piacere unico per gli occhi e per la mente.

Di carattere era individualista, irridente, guascone, dispettoso, irascibile, impulsivo, attaccabrighe, simulatore. Capace di collezionare infinite giornate di squalifica, magari dopo aver insultato, rincorso e minacciato l’arbitro. Rissoso al punto che durante una partita importante rimediò un ceffone dal compagno di squadra John Charles, con cui formava una coppia d’attacco incontenibile.
Il gallese, considerato ancora oggi un modello di correttezza sportiva, fu costretto a quel gesto estremo per sedare il bizzoso e infuriato fantasista argentino, nell'intento di prevenire la consueta, ingovernabile zuffa.

Sivori era capace come nessuno di sbeffeggiare e provocare malignamente l’avversario: ne sa qualcosa il portiere del Padova Pin, cui l'asso juventino giurò di tirare un rigore controverso da una parte, per insaccarlo invece nell’altro angolo della porta.
Vendicativo, poteva arrivare a picchiare con calcolata perfidia chi gli si opponeva, frantumandone ossa, tendini e muscoli. Secondo Ernesto Ferrero, scrittore, critico letterario, traduttore e dirigente della Casa Editrice Einaudi, che paragona Sivori ai "ragazzi di vita" pasoliniani, al campione argentino venivano perdonati certi sciagurati eccessi da “giovane deviante, refrattario a ogni principio di autorità, perché interpretava la parte che ognuno sogna per sé e che ogni pubblico agogna: seminare un’intera difesa, saltarla come birilli, appunto, ridicolizzare gli avversari, imporre una genialità non riconducibile a categorie note, portare a buon fine imprese impossibili”.
Rappresentava, per il calcio dell'epoca, più che un semplice calciatore l’incarnazione di una figura archetipica: il Briccone Divino, “il re dei coboldi e dei folletti, il trickster”, per citare ancora lo splendido ritratto che del campione juventino tratteggia Ferrero.

Antesignano di Maradona, che proprio lui, da osservatore, segnalerà invano alla Juventus, Sivori realizzava molti goal, in tutti i modi: al volo, in sforbiciata, da terra, su rigore; persino di testa, lui, piccolo di statura. Aveva un piede solo, il sinistro, come del resto molti altri grandi talenti calcistici. Un sinistro, però, che incantava le folle.

Come Maradona, Sivori non era molto amato dagli allenatori. Indisciplinato, refrattario alle regole, insofferente degli allenamenti prolungati, Sivori era particolarmente indigesto ad Heriberto Herrera, l’allenatore paraguayano che la Juventus ingaggiò nel 1965, noto per essere un fautore del gioco collettivo e un “sergente di ferro”, il cui motto era “Movimiento, movimiento!”. Tra i due fu subito scontro aperto e Sivori a malincuore abbandonò la Juventus per terminare la propria carriera a Napoli. E fu proprio contro la sua ex squadra, la Juventus, che Sivori maturò la decisione di farla finita col calcio giocato. In seguito a uno scontro con il suo marcatore Erminio Favalli, che accentuò gli effetti di un fallo di gioco, Sivori rimediò una squalifica di 6 settimane in ragione della quale, indispettito, decise di appendere gli scarpini al chiodo.

Rientrò in Argentina, dove si dedicò alla sua grande azienda agricola, continuando a fare l’osservatore calcistico. Negli ultimi anni fu commentatore sportivo per la RAI partecipando, come opinionista, alla Domenica Sportiva.
Soprannominato “El Cabezon” per la folta capigliatura che terminava con un corposo ciuffo sulla fronte, Sivori, insieme agli altri due oriundi Maschio e Angelillo, formava il trio degli “angeli dalla faccia sporca”.

A Giorgio Bocca, uno dei maggiori giornalisti italiani del secolo scorso, Sivori, in mezzo ai compagni di squadra, appariva come “il principe degli zingari in mezzo ai bravi operai specializzati [...] una faccia da picaro simpatico e spavaldo”. Per Gianni Agnelli, l’Avvocato per antonomasia della Storia d’Italia e indimenticato patron della Juventus, “Sivori è un vizio”. Gianni Brera così lo descrive: “Ha il solo sinistro ma suole usarlo come fosse un grande e pur delicato pennello: nel dribbling è a dir poco spassoso per gli spettatori e diabolico per gli avversari, ai quali usa infliggere tunnels irridenti: tutti i tiri possibili figurano nel suo repertorio: l’uomo è un atipico, però di immensa classe”.
Secondo Gigi Garanzini, altro noto giornalista sportivo, Sivori “dribblava in un fazzoletto di terra, sentiva la porta ancor prima di vederla e quand’era ora di violarla amava farlo, se appena era possibile, accarezzando il pallone, anziché calciandolo come un goleador qualunque. [...] era cattivo come il tossico”.
Nella sua autobiografia, Giampiero Boniperti, storico dirigente bianconero, che nella Juventus di Sivori ricopriva il ruolo di mezzala di regia, così lo ricorda:

"Sivori era argentino [...]. L'argentino ti dribbla dandoti un pugno in faccia e poi ti manda a fare in culo, con un 'hijo de puta'. [...] Sivori era tutto il contrario (di John Charles, ndr). Strafottente. Ti tirava i capelli, ti metteva le dita negli occhi. [...] Ma che grande giocatore Omar. Ti divertiva in campo e fuori. [...] Sivori non si teneva dentro niente. Ed era molto coccolato: dai giornalisti e dalla famiglia Agnelli. Dicevano che non andassimo d'accordo ed è vero solo in parte. Eravamo molto diversi, questo sì, mi disturbavano certi suoi atteggiamenti provocatori e glielo dicevo. Non ci siamo taciuti nulla, ma insultati mai, litigate mai. Anzi, ci siamo divertiti insieme"

Omar Enrique Sivori nasce a San Nicolas il 2 ottobre 1935 e muore a Buenos Aires il 17 febbraio 2005, in seguito alle complicanze di un tumore al pancreas. Nella sua gloriosa carriera colleziona 9 presenze e 8 reti con la maglia della nazionale italiana, esordendo il 25 aprile 1961: Italia - Irlanda del Nord 3-2, mentre nella selezione argentina gioca 19 incontri mettendo a segno 9 goal. Nel Campionato italiano di Serie A gioca complessivamente 279 incontri, mettendo a segno 147 reti. Vince 3 Campionati argentini (1955, 1956, 1957), 3 Campionati italiani (1957-58, 1959-60, 1960-61), 3 Coppe Italia (1958-59, 1959-60, 1964-65), 1 Coppa America (1957). Da allenatore guida il River Plate, la nazionale argentina (1972-73) e il Vélez Sarsfield (1978). Nel 1961 una giuria internazionale gli assegna il Pallone d’Oro.

Riferimenti bibiografici:
G. Bocca, Miracolo all'italiana, Feltrinelli, 2018
G. Boniperti, E. Speroni, Una vita a testa alta, Rizzoli, 2003
G. Brera, Storia critica del calcio italiano, Baldini & Castoldi, 1998
E. Ferrero, Amarcord bianconero, Einaudi, 2019
G. Garanzini. Il minuto di silenzio, Mondadori, 2017
C. Moretti, Juventus. Capitani e bandiere, Newton Compton, 2020

La foto di Omar Sivori è tratta dalla Gazzetta dello sport, "E' morto Sivori", febbraio 2005