Viviamo in un'epoca in cui la parola
"elite" ha
acquisito un'accezione negativa. Non a caso. La popolazione si è resa conto che le
elite al potere, invece di tutelare l'interesse generale, pensano a difendere i propri interessi e privilegi. E
chi non si conforma al pensiero unico dominante viene bollato come
"sovranista" o "populista". Viene intimidito e ostracizzato.
Ci hanno detto, in questi anni, che la deregolamentazione liberista ci avrebbe resi tutti più ricchi. Che la mano invisibile del mercato avrebbe aggiustato ogni cosa. Ma non è andata esattamente così: la teoria del trickle-down per cui la ricchezza sarebbe gocciolata inevitabilmente dall'alto al basso, si è rivelata fallace. Anzi, le disuguaglianze in questi anni sono aumentate e i ricchi si sono accaparrati l'intera posta, in un gioco rivelatosi a somma zero.
Le classi dirigenti incolpano i ceti popolari di insipienza e di scarsa iniziativa. "Il lavoro c'è" - disse un giorno Macron a un disoccupato, "basta attraversare la strada". Non è così e non è vero che la causa della disoccupazione sia un "generale attacco di pigrizia".
Il lavoro ci sarebbe, qualora si invertisse la rotta e si consentisse anche allo Stato di intervenire. I bisogni e i desideri degli esseri umani sono infiniti. Forse è giunto il momento di spostare l'economia dei Paesi più avanzati dalla manifattura al settore dei servizi, lasciando parte della produzione industriale ai Paesi in via di sviluppo. Educazione, salute, sicurezza, ambiente, tempo libero, cultura, informazione, assistenza alla persona sono tutti settori ad alta intensità di manodopera, che possono generare buoni impieghi. Un'ampia offerta di servizi, oltre che migliorare il tasso di occupazione generando ricchezza, innalzerebbe la qualità della vita delle persone. Costituirebbe un incredibile volano di crescita per l'economia.
Non è certo penalizzando i lavoratori, spogliandoli dei loro diritti, imponendogli una flessibilità precarizzante e inserendoli in organizzazioni rigidamente gerarchiche che si migliora l'economia. L'economista premio Nobel Edmund Phelps ha dimostrato che l'innovazione è trainata da lavoratori soddisfatti più che dagli ordini impartiti dall'alto.
Secondo Fitoussi, l'informazione mainstream ha sviluppato una vera e propria neolingua, per manipolare le menti e mistificare la realtà. Chi non si adegua, cessa di appartenere al "circolo della ragione", come lo chiamava ironicamente Alain Minc. I diritti sono diventati privilegi. Le riforme si stanno traducendo in provvedimenti che aggravano le condizioni di vita dei cittadini. Si ridistribuisce la ricchezza agli azionisti, togliendola ai lavoratori.
Si è deciso di combattere la crisi economica con una politica di austerity che ha inasprito la crisi stessa, impoverendo la gente. Si stanno sacrificando interi popoli in nome di dottrine economiche a dir poco fantasiose. Gli economisti neoliberisti ci stanno convincendo che dobbiamo espiare chissà quali peccati. Mentre il deficit statale - secondo Fitoussi - non è un tabù che non si deve infrangere a tutti i costi. La stragrande maggioranza dei Paesi sviluppati ha un deficit pubblico che si aggira intorno al 100% del PIL. Per molti di essi ciò non costituisce un problema. Lo Stato non si amministra come una famiglia. Il suo debito, se va a migliorare l'educazione e le infrastrutture, produce un beneficio anche per le imprese private.
L'Unione europea così come è concepita, non aiuta. Le esportazioni tedesche stanno danneggiando le economie degli altri Paesi. L'euro impedisce la flessibilità delle politiche economiche di ciascuno degli stati membri. Sarebbe allora auspicabile un'evoluzione dell'Europa in senso federale, "dove il popolo ritorni sovrano". L'economia insomma - ci racconta Fitoussi - non è una scienza esatta e mentre nulla è sicuro, si potrebbe nel frattempo operare un cambiamento con politiche diverse da quelle fallimentari condotte sino ad oggi.
I cittadini vivono in una condizione di sempre maggiore precarietà e angoscia. I sistemi di welfare sono ridotti al minimo. La preoccupazione economica avvelena la vita di larghi strati di popolazione, che si sentono abbandonati, mentre il compito dello Stato è proprio quello di proteggere la sua popolazione. Il malcontento generale rischia di provocare rivolte sociali. Non va bene una finanza al servizio di se stessa e non delle imprese come non va bene una mondializzazione senza protezione.
Da ultimo, l'economista francese ci esorta a non credere ciecamente alle statistiche, principalmente a quelle propagandate dai media. Le statistiche ci dicono che siamo tutti più ricchi. Ma non è cosi. La percezione della maggior parte delle persone è di condurre una vita grama, piena di ansie per il futuro. Le statistiche possono essere mendaci, soprattutto quando mescolano ricchi e poveri.
"[...] perché mai, visto che siamo più ricchi, non possiamo concederci quello che avevamo quando eravamo più poveri, perché mai la diminuzione dei salari e non l'aumento del benessere è diventata il principale indicatore del progresso. come possiamo soltanto immaginare in queste condizioni un futuro radioso, o almeno migliore?"
Riconosciuto come uno degli economisti più autorevoli del panorama internazionale, Jean-Paul Fitoussi (1942) in questo sui libro-intervista con Francesca Pierantozzi, corrispondente del "Messaggero", non le manda a dire, capovolge le parole d'ordine di economisti e testate giornalistiche che vanno per la maggiore, rovescia il banco. E ci fa intravedere un filo di luce e di speranza in fondo al tunnel di questi anni bui.