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a cura di Giovanna Artioli e Giovanna Amaducci, Narrare la malattia. Nuovi strumenti per la professione infermieristica, Carocci, 2007

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copertina libroLa medicina moderna non conosce il corpo, ma l’organismo. Contrariamente a quanto avveniva nei secoli passati, l’individuo contemporaneo fatica a riconoscere un senso alla malattia, sottratta dal medico alla sfera dell’esperienza e consegnata al computo oggettivante del laboratorio. Nel mondo attuale la malattia non ha più un significato riconoscibile e riconosciuto, ma ha semplicemente un decorso e un esito. La sofferenza, come è interpretata dalla scienza , è ormai perfettamente riducibile a uno squilibrio di organi e di molecole. È disease (malattia intesa come anomalia clinico-biologica) e non più illness (malattia come “vissuto”) e/o sickness (la modalità con cui la società rappresenta la malattia). Gli operatori sanitari non si concentrano sul malato, ma sulla malattia. Non si misurano più con la biografia, ma soltanto con la patologia. D’altronde, si sa, la medicina moderna si è sviluppata a partire non già dallo studio del vivente, ma dalla dissezione del cadavere.

Contro un approccio riduzionista e meccanico al malato, tipico della medicina odierna, si è andato sviluppando, per reazione, un filone di pensiero che si propone di conferire, tramite un'alleanza tra operatore e soggetto malato, un significato all'esperienza di malattia. Nascono così la medicina narrativa e, forse ancor più importante, il nursing narrativo.
Abituato storicamente più del medico a stare a stretto contatto col malato, a condividerne ansie e aspettative, l’infermiere, la cui disciplina , l’infermieristica, ha maggiore attinenza con le scienze umane piuttosto che con le cosiddette scienze “dure”, appare forse la figura professionale più adatta per giungere, insieme al malato, ad una comprensione più profonda dell’esperienza della malattia.

In sintesi, il pensiero contemporaneo ci fornisce due paradigmi diversi con cui rapportarsi alla persona ammalata, due paradigmi che è auspicabile sussistano uno accanto all’altro e divengano complementari: uno scientifico, oggettivante, positivista, talvolta autoritario che si occupa degli organismi delle persone, trattandoli come fossero macchine da aggiustare e un altro paradigma, non meno dignitoso, olistico, dialogico, intersoggettivo, simmetrico, che si avvicina alla malattia come esperienza potenzialmente ricca di significati, da comprendere in tutti i suoi aspetti. D'altra parte è  esperienza comune che, quando il malato viene ricoverato in ospedale, l’attenzione dei curanti si concentri quasi esclusivamente su quegli squilibri e quei parametri biologici che si ritiene di dover correggere.
Nessuno nega i grandi risultati raggiunti da un approccio scientifico oggettivante di questo tipo. Tuttavia, in questo modo, non lasciando parlare il malato, si trascurano di frequente particolari rilevanti circa la sua malattia, particolari che rivestono grande importanza nel processo di cura. Soprattutto si tende ad ignorare qual è il vissuto del malato, quali sono i suoi rapporti con la malattia, quali i suoi timori e i suoi obiettivi.

A ben considerare non si tratta di aspetti marginali, ma di aspetti fondamentali che incidono sulla compliance del paziente alla cura, sulla sua motivazione, sul suo benessere psicologico. Consentono a chi presta assistenza di individuare con precisione i bisogni dell’utente, di guardarlo a ascoltarlo veramente, manifestando attenzione. Permettono alla persona ammalata di adattarsi meglio e positivamente ai cambiamenti indotti dalla malattia. Infine, attribuire al dolore delle persone un significato più ampio permette di renderlo più sopportabile

Particolarmente nelle patologie cronico-degenerative, l’attenzione al racconto che la persona produce sulla sua malattia, la prospettiva di considerare l'evento morboso come un’esperienza densa di significato, la possibilità accordata alle persone di comunicare la propria biografia intessuta di pensieri, emozioni, sentimenti, desideri, aspettative, non può che migliorare il rapporto operatore-paziente, dare alla persona malata la piacevole sensazione di essere compresa e facilitare in questo modo l’adozione di stili di vita più appropriati. Si tratta, insomma, di passare dalla dimensione del cure (la cura secondo i dettami fisico-chimico-biologici) a quella del care ( “prendersi cura” in toto della persona ammalata).
Per guidare l’infermiere sull’impervia ma gratificante strada del nursing narrativo sono stati messi a punto dei modelli, delle griglie flessibili, cui ispirarsi per condurre un’”intervista narrativa”.

Rivalutare, accanto al pensiero scientifico dominante, quello narrativo, significa umanizzare la sanità, lavorare non più solo sulla quantità dei dati oggettivi, ma sulla qualità, sulle sfumature, sulla personalizzazione dell’intervento sanitario. In campo infermieristico il pensiero narrativo comincia ad avere riconosciuta dignità scientifica nel settore della ricerca così come in ambito clinico. I mezzi attraverso i quali si declina il nursing narrativo sono lo studio delle autobiografie, le storie di vita, l’attenzione alle trame (plot) che accompagnano l’esperienza della malattia.

Nato dall’elaborazione successiva di idee filosofiche che fanno capo alla fenomenologia di Husserl e all’ermeneutica di Gadamer e Ricoeur, nonché alle riflessioni di molti altri filosofi del Novecento come per esempio, Heidegger, Jasper e Arendt, il nursing narrativo, perché non rimanga soltanto un auspicio, ma diventi una pratica efficace, necessita di preparazione, empatia, sensibilità e di sviluppate capacità interpretative da usare nelle varie fasi della relazione infermiere-paziente.

Queste sono le idee e le metodologie fondamentali che circolano nelle 158 pagine del bel libro di Giovanna Artioli e Giovanna Amaducci . Una proposta, quella del nursing narrativo, che si offre come uno strumento in più a disposizione dell’infermiere, nell’esercizio sempre difficile e delicato della sua professione.

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Pagina aggiornata il 22.08.15
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