Secondo la filosofia utilitarista (Jeremy Bentham, 1748-1832), ribadita nel secolo successivo da Sigmund Freud (1856-1939), il padre della psicoanalisi, l’uomo regola le proprie azioni in modo da evitare il dolore e ricercare il piacere. La nostra società sembra aver realizzato questo progetto. Il filosofo Byung-Chul Han sostiene infatti che le nostre vite procedono contrassegnate da una sorta di algofobia, ossia "una paura generalizzata del dolore". Vige oggigiorno un'anestesia permanente. La nostra democrazia può essere definita palliativa perché la politica odierna evita i conflitti e le scelte incisive, ma dolorose. Siamo la società del “penso positivo”, mentre il dolore rappresenta il negativo.
Viviamo nell’esaltazione della prestazione e della felicità obbligatoria. Il dolore è, al contrario, un’evenienza incompatibile con l'ottimizzazione e la performance. La passività della sofferenza è estranea alla società del fare. Trascorriamo i nostri giorni nella ricerca ossessiva di approvazione, dei “mi piace”: il like è assurto ad analgesico della contemporaneità.
L'arte stessa ha perso la sua capacità trasformativa: mercificata, deve soprattutto compiacere. La sofferenza quando si presenta, viene subito medicalizzata e farmacologizzata. Oppure viene psicologizzata, attraverso varie attività terapeutiche incentrate sull’introspezione, sull’esame cioè della psiche delle singole persone. In questo modo il dolore viene individualizzato, l’io prende il posto del noi, il terapeuta e il life coach si sostituiscono al riformatore e al rivoluzionario, impedendo ai soggetti di prendere coscienza dell’origine sociale, collettiva della propria sofferenza. Ciascuno viene ritenuto l’unico responsabile dei propri fallimenti. La perdita del lavoro cessa, ad esempio, di essere considerata una sventura, spesso collettiva, ma, nell’ottica del pensiero positivo, viene fatto credere all’individuo isolato che si tratti di un’opportunità.
La pandemia ci ha reso coscienti che la sopravvivenza è diventata più importante del diritto a vivere. Persino la Chiesa ha rinunciato a celebrare la messa durante il lockdown, per garantire il distanziamento profilattico, sancendo la supremazia della virologia sulla teologia. Respinto e negato, il dolore tuttavia ritorna incomprimibile nelle nostre esistenze.
“Viviamo in una società in cui aumentano solitudine e isolamento, peraltro accentuati dal narcisismo e dall’egoismo”.
Davvero dunque il dolore ha una valenza soltanto negativa? No. Va detto che il mondo privo di dolore è un mondo senza verità, un universo di indifferenza e insensibilità in cui tutto è uguale. Il dolore è realtà. Soltanto il dolore permette un’acuta percezione di sé. Dal dolore origina gran parte della letteratura, dell’arte, della musica, della filosofia, della riflessione dell’uomo su se stesso.
Per contro, l’anestesia permanente che si accompagna alla nostra confortevole sopravvivenza porta all’ottundimento spirituale. L’intelligenza artificiale, il nostro nuovo idolo, è esclusivamente capacità di calcolo, ma soltanto il dolore è in grado di produrre un pensiero sufficientemente articolato e complesso.
L’odierno ordine digitale che pone il suo fondamento sui numeri e che promuove algoritmi e trasparenza si contrappone all’oscurità del mistero, del lutto e dello struggimento, esperienze di vitale importanza. L’impazienza dell’accesso immediato che caratterizza gli atti della nostra vita quotidiana, porta alla scomparsa di ciò che è durevole e lento, rende obsolete la pazienza e l’attesa. Il consumo, che contraddistingue la società tardo-moderna, si contrappone alla rinuncia. In aggiunta, l’intrattenimento televisivo e cinematografico ci anestetizza circa la violenza. Ci trasforma in spettatori indifferenti, apatici, non coinvolti, incapaci di genuina empatia.
Al tempo che stiamo vivendo, tutto proteso verso l’edonismo, la sicurezza e la comodità, non c’è più posto per gli slanci eroici. La nostra epoca ha realizzato concretamente il concetto di “ultimo uomo” profetizzato da Nietzsche, un uomo senza passioni, incapace di sognare e di assumersi rischi.
Conclude Byung-Chul Han:
“La vita priva di dolore e munita di costante felicità non sarà più una vita umana. La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa. La morte e il dolore sono fatti l’uno per l’altra. Nel dolore, la morte vien anticipata. Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L'essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita".
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L’autore del saggio, Byung-Chul Han, è nato a Seoul nel 1959, ma ha studiato Filosofia, Germanistica e Teologia cattolica a Friburgo e a Monaco di Baviera. È stato professore di Filosofia e Studi culturali presso la Universität der Künste di Berlino. I suoi libri si appuntano su una severa critica al neoliberismo.