copertina libroK. è un uomo sulla trentina. Egli svolge la professione di agrimensore. Un fantomatico Conte, signore del Castello, gli ha commissionato un lavoro. Dopo un lungo e faticoso viaggio, K. giunge in tarda serata in una locanda dove viene accolto con diffidenza da oste e avventori. Quando il mattino seguente esce per ispezionare il territorio scopre che il Castello non è "una vecchia fortezza feudale, né una nuova costruzione fastosa", bensì "un insieme di casupole con la sola particolarità di essere costruite in pietra", con l'intonaco caduto e i muri scrostati.

Lungo la strada che conduce al Castello, K. fa altre conoscenze, contraddistinte ancora una volta dalla diffidenza e da un'oscura ostilità. Di ritorno alla locanda, si aggregano a K. Arthur e Jeremias, due individui quasi indistinguibili l'uno dall'altro, che si qualificano come i vecchi aiutanti di K., ma che K. in realtà non conosce. Più che assistere l'agrimensore, i due sorvegliano ogni suo comportamento e movimento.

Il mondo con cui K. si trova ad entrare in relazione è costituito da due realtà: il villaggio con i suoi contadini che costituiscono una comunità obbediente e soggiogata alla Legge e il Castello, che rappresenta, con i suoi funzionari, impiegati, scrivani, segretari, portinai, sottoportinai e servitori, il Potere dai disegni imperscrutabili, cui gli esclusi dalla cerchia devono assoggettarsi.

K. fa diversi altri incontri. In un albergo, attraverso uno spioncino, riesce addirittura a vedere il referente del suo lavoro al Castello, un certo Klamm, una figura quasi mitologica, che aleggia su tutta la vicenda senza mai materializzarsi davvero e che vive attraverso il racconto di chi lo ha incontrato. Fa inoltre la conoscenza dell'amante di Klamm: Frieda. Ma mille ostacoli, divieti, impossibilità continuano a frapporsi tra K. e il Castello, che gli appare, ogni giorno che passa, un miraggio irraggiungibile, una realtà da cui lui, K., è irrimediabilmente escluso.
K. "non è del Castello né del villaggio""un forestiero", "uno di troppo e sempre tra i piedi, che procura un mucchio di seccature".

K. ha un colloquio con il sindaco, il quale gli descrive la perfezione di tutto l'ingranaggio burocratico-amministrativo del Castello, perfezione che talvolta può produrre errori. I quali tuttavia fanno essi stessi parte dell'armonia di tutto il sistema.
Il sindaco mette al corrente K. che la sua nomina ad agrimensore è stata un equivoco: il Castello non ha bisogno di agrimensori, i confini tra le proprietà sono già tutti ben tracciati. Non ci sono contenziosi significativi in corso.

Il maestro del villaggio offre a K. un posto da bidello e Frieda, diventata nel frattempo la fidanzata di K., lo induce ad accettare. Il maestro, altezzoso e autoritario, minaccia di licenziare K., reo di aver trascurato i propri doveri lavorativi, mentre Frieda espone all’agrimensore tutti i dubbi relativi alla sincerità della loro relazione.

K. fa la conoscenza di altre persone, che hanno avuto contatti col Castello e i suoi funzionari, come la famiglia del calzolaio del villaggio e in particolare il figlio Barnabas e le sorelle Amalia e Olga. Quest'ultima gli racconta una triste storia di decadenza familiare e di ostracismo da parte di tutto il villaggio, dopo che la sorella minore ha osato rifiutare le volgari avances di un funzionario di nome Sortini.

K. riesce finalmente ad avere un colloquio, per quanto breve, con un funzionario, ma durante lo scambio verbale si addormenta.
Frieda abbandona K., mettendosi con uno dei suoi due assistenti, Jeremias e riprende il suo vecchio lavoro alla mescita dell’Albergo dei Signori, estromettendo un’altra ragazza, Pepi, una cameriera temporaneamente salita di grado che, raccontando le personali disavventure tratteggia a K., dal proprio relativo punto di vista, la complessa personalità di Frieda.

Scritto nel 1922 e pubblicato postumo nel 1926, il romanzo rimane inconcluso. Secondo Max Brod, amico e massimo curatore dell’opera di Kafka, il Castello doveva concludersi, secondo le intenzioni dell’autore, con un K. ormai prossimo alla morte, attorniato dall’intero villaggio, dopo aver ricevuto la rassicurazione dal Castello di poter soggiornare e lavorare nella comunità, senza tuttavia aver acquisito dei veri diritti.

Il Castello è dunque la sede di un'autorità impersonale. sfuggente, arbitraria, inaccessibile, minacciosa, perfida, persecutoria. Persegue scopi oscuri e inconoscibili ai comuni mortali. Richiede obbedienza e sottomissione, mentre soffoca ogni speranza di vita nei sudditi che non si conformano alla sua Legge. Il Castello è un romanzo sulla colpa, sulla necessità di chiedere perdono per non si sa quale turpe azione compiuta.

Come tutte le grandi opere letterarie, Das Schloss, ricco di simboli, allegorie e sfumature, si offre a diversi, inesauribili livelli di lettura e interpretazioni. In esso si allude all'alienazione dell’uomo contemporaneo, ingranaggio talvolta inconsapevole di una macchina economico- burocratico-amministrativa incomprensibile e terrificante. Ma vi si può cogliere anche il tema, già prima accennato, della colpa, del peccato originale e della Grazia, l’esclusione storica patita dall’Ebreo e dal "diverso", la problematica relazione dell’individuo con il collettivo e con l’Autorità, terrena e sovrannaturale.

Mescolando realismo e onirismo, la narrazione procede sul registro dell'assurdo e del grottesco. Il paesaggio descritto nel racconto è freddo e incolore, in bianco e nero, caratterizzato dalla neve. K. vive la propria ossessione in un'atmosfera sospesa, in una sorta di incubo, da cui non riesce a risvegliarsi.
Il Castello rappresenta una sfida ardua per il lettore, il quale lettore è tuttavia ripagato dalla presenza, nel testo, di passaggi illuminanti e di osservazioni lapidarie che costituiscono delle vere e proprie epifanie.

Secondo Ladislao Mittner, autorevole germanista, Il Castello “è, pur nella sua incompiutezza, l’opera più riccamente orchestrata ed insieme l’opera più accuratamente architettata di Kafka, la sua opera più poliedrica, ma anche la più compatta”.