L'ETA' GIOLITTIANA
Il liberalismo
Giolittiano.
Giolitti fu ministro degli interni nel governo Zanardelli e poi presidente del
consiglio, con brevi interruzioni. Giolitti dominò la vita politica italiana
sino alle soglie della prima guerra mondiale. Il suo disegno politico mirò ad
unire sviluppo economico e libertà politica, condizioni necessarie per
assicurare stabilità al paese. Di fronte all’affermarsi del movimento
socialista Giolitti puntò ad integrare la classe operaia nelle istituzioni
dello stato liberale. A tal fine, ritenne necessaria una politica non di
scontro, ma d’accordo con le rappresentanze sindacali e politiche del movimento
operaio. Era una grande novità per il sistema politico italiano: novità che
impauriva la parte più retriva della classe dirigente, ma che ebbe per un certo
tempo l’appoggio della parte più avanzata della borghesia industriale. Anche il
partito socialista, nel quale all’inizio del secolo prevaleva l’ala riformista,
non era contrario a un’alleanza fra le forze più moderne del paese (industriali
e classe operaia) per sconfiggere il medioevo economico e morale. Perciò i
socialisti diedero a più riprese il loro appoggio parlamentare alla linea
giolittiana, a cominciare dalla fiducia votata nel 1901 al governo Zanardelli –
Giolitti.
Conflitto sociale e
neutralità dello stato. Da ministro degli interni, Giolitti mantenne il governo in posizione di
neutralità di fronte ai conflitti sindacali. Egli riteneva che non esistesse in
Italia un reale pericolo rivoluzionario e che il movimento sindacale e
socialista avessero obiettivi essenzialmente economici: a chi gli rimproverava
eccessiva moderazione di fronte agli scioperanti, ribatteva che un
atteggiamento ottusamente repressivo da parte del governo non avrebbe fatto
altro che dare significato politico alla lotta sindacale, mettendo così in
reale pericolo lo stato. Questo nuovo atteggiamento del governo ebbe l’effetto
immediato di rafforzare il movimento sindacale: gli scioperi crebbero in numero
e in estensione, ottenendo nella maggioranza dei casi risultati favorevoli per
i lavoratori. Nonostante gli attacchi che gli venivano dai conservatori,
Giolitti mantenne ferma questa politica pur consapevole del fatto che essa
avrebbe provocato una redistribuzione del reddito dai profitti ai salari, cosa
che in effetti avvenne: egli giudicava positivo questo risultato i termini sia
politici che economici, perché un maggior benessere delle classi lavoratrici
avrebbe comportato un allargamento del mercato interno e dei consumi, oltre che
un più saldo consenso sociale.
Il riformismo
giolittiano: successi…
Accanto alla maggiore libertà
concessa alla contrattazione e al conflitto sindacale, l’altro polo della
strategia giolittiana era rappresentato dalle riforme sociali ed economiche.
Provvedimenti importanti nel campo della legislazione sociale si ebbero nel
corso del primo governo Zanardelli – Giolitti: tutela del lavoro delle donne e
dei fanciulli (l’età minima per accedere al lavoro venne elevata a 12 anni),
miglioramenti dell’assistenza infortunistica e pensionistica, obbligatorietà
del riposo settimanale. Successivamente, gli interventi riformatori di maggiore
efficacia furono la statalizzazione delle ferrovie, una nuova legge scolastica
ce avocava allo stato l’istruzione elementare e, soprattutto, la
nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita, che assegnava allo stato il
monopolio del settore attraverso l’istituzione di un apposito ente, l’Ina,
(istituto nazionale assicurazioni). Si trattava di un provvedimento di
rilevante significato politico, perché sanciva il controllo del potere pubblico
in una materia di grande importanza economica e sociale: in quanto tale, esso
fu duramente osteggiato dai gruppi finanziari e assicurativi privati e non
venne, di fatto, applicato.
…e limiti
Nel complesso, il riformismo
giolittiano risultò inferiore alle attese e ai programmi. Mancò una politica di
largo respiro, capace di incidere sui problemi strutturali dell’economia e
della società italiane, a cominciare dallo squilibrio tra nord e sud del paese.
Gli interventi di Giolitti a favore del mezzogiorno, alcuni dei quali in sé
rilevanti, come la realizzazione dell’acquedotto pugliese, si affidarono a
leggi speciali con le quali venivano attivati stanziamenti e flussi di denaro
che finivano per lo più con l’alimentare clientele e corruzione. Anche la
neutralità del governo nei conflitti sociali si limitò in realtà alle fabbriche
e alle campagne del nord: nel meridione lo stato continuò a intervenire
duramente, causando spesso numerose vittime, nel tentativo di stroncare le
lotte dei contadini. Si può dire anzi che nell’età di Giolitti, caratterizzata
da un forte slancio economico e industriale, la questione meridionale si
aggravò ulteriormente. Il progetto di Giolitti per il progresso del paese
muoveva, infatti, da una visione industrialistica e settentrionalista del
problema italiano: esso si fondava su un accordo fra industriali e classe
operaia settentrionale, che escludeva nei fatti i ceti meridionali.
I socialisti e Giolitti
Anche il progetto giolittiano di rafforzare
il governo grazie ad un accordo politico con i socialisti fallì nella sostanza.
Giolitti non riuscì a fare dei socialisti una forma di governo. I socialisti
accolsero con favore il governo Zanardelli – Giolitti, che sembrava
l’interlocutore adatto per realizzare il “programma minimo” stabilito dal
partito nel congresso di Roma: suffragio universale, libertà sindacale,
riduzione dell’orario di lavoro, tutela del lavoro di donne e fanciulli,
istruzione laica e obbligatoria, assistenza e previdenza erano i punti
principali di tale programma, sostenuto dalla maggioranza riformista di Filippo
Turati e Claudio Treves. Pur senza abbandonare la prospettiva
dell’instaurazione del socialismo, Turati riteneva che la classe operaia
dovesse favorire la crescita di una moderna borghesia industriale quale
premessa per una trasformazione della società in senso socialista, premendo nel
frattempo sul governo per ottenere le riforme. Ma questa linea era combattuta,
all’interno del partito dall’ componente rivoluzionaria, ostile a ogni accordo
con i governi borghesi, che, a suo giudizio, avrebbe tolto autonomia all’azione
socialista e ne avrebbe causato il distacco dalle masse popolari. Turati
rifiutò la proposta di entrare a far parte del governo avanzata da Giolitti, e
si limitò ad un appoggio “caso per caso”: appoggio che venne poi ritirato di
fronte ai modesti risultati della riforme, ai frequenti casi di lavoratori
caduti nel corso di scontri con le forze dell’ordine e alla crescita della
componente sindacalista – rivoluzionaria all’interno del partito, guidata da
Arturo Labriola.
Lo sciopero generale
del 1904
Nel congresso di Bologna la
componente riformista del partito fu messa in minoranza e nel settembre dello
stesso anno fu proclamato uno sciopero generale nazionale, il primo d’Italia.
Lo sciopero paralizzò il paese e impaurì la borghesia, ma, salvo alcuni episodi
isolati di violenza, fu affrontato con calma da Giolitti e gestito con
moderazione dalle organizzazioni sindacali e politiche. Lo sciopero generale segnò
il punto massimo, ma anche l’inizio del declino del sindacalismo
rivoluzionario: la mancanza di risultati concreti e l’insuccesso delle
agitazioni proclamate successivamente indebolirono l’ala estrema del partito,
la cui guida fu nuovamente assunta dai riformisti. Ma la possibilità di un
accordo stabile fra Giolitti e il partito socialista era ormai sfumata, tanto
che il ministro liberale iniziò a guardare con crescente attenzione a un’altra
grande componente della società italiana: i cattolici.
L’impegno sociale dei
cattolici
Nel mondo cattolico erano intervenuti
importanti cambiamenti. L’estraneità dei cattolici alla vita politica nazionale
si era progressivamente attenuata: i cattolici partecipavano alle elezioni
amministrative e affiancavano i liberali nell’amministrazione di comuni e
province; la borghesia cattolica era sempre più inserita nello sviluppo
economico del paese, soprattutto nei settori bancario e amministrativo; dopo la
pubblicazione dell’enciclica di Leone 13° rerum novarum che delineava i
principi della dottrina sociale della chiesa, il movimento cattolico e le sue
organizzazioni si erano progressivamente estesi nel paese, soprattutto nelle
campagne, dove erano sorte numerose casse rurali e “leghe bianche”, cioè
organizzazioni sindacali cattoliche. Questo graduale ritorno dei cattolici alla
vita sociale e politica organizzata nasceva dalla consapevolezza, presente
soprattutto fra i giovani, che il cattolicesimo non poteva rimanere escluso dai
processi di trasformazione in atto nella società italiana né lasciare ai
socialisti la rappresentanza delle aspirazioni e degli interessi popolari.
Varie posizioni
all’interno del movimento cattolico
All’interno del neonato movimento
cattolico esistevano, diverse tendenze. La tendenza degli intransigenti,
arroccata in un netto rifiuto dello stato liberale e d’ogni elemento della
modernità, fu maggioritaria negli ultimi due decenni del secolo. Essa diede
vita a una grande e capillare organizzazione, l’opera dei congressi, allo scopo
di coordinare le attività dei cattolici nelle scuole, nelle opere pie, nelle
società di mutuo soccorso. Una seconda tendenza era quella moderata, che faceva
capo a Filippo Meda, favorevole ad un progressivo inserimento dei cattolici
nello stato liberale. Una terza posizione, infine, era quella della Democrazia
Cristiana, movimento fondato dal sacerdote Romolo Murri. Murri riteneva che per
affermare il ruolo del cristianesimo e della chiesa della nuova società
industriale, fosse necessario creare un partito di massa cattolico. Sotto
l’influenza delle idee moderniste, Murri diede a quest’iniziativa un
significato sempre più accentuatamente sociale e anticonservatore, schierandosi
a favore delle riforme sociali e in appoggio alle rivendicazioni dei
lavoratori. Il movimento di Murri giunse a sostenere i candidati radicali e
socialisti, e lo stesso Murri risultò eletto nelle file della sinistra, cosa
che ne provocò la scomunica da parte del nuovo pontefice Pio X, succeduto a
Leone XIII.
Giolitti e i cattolici.
La distinzione fra intransigenti e
transigenti venne superata dal prevalere, all’interno del mondo cattolico,
della tendenza clerico-moderata, che riteneva necessario per i cattolici
impegnarsi nella vita politica al fianco dei liberali conservatori in
opposizione ai socialisti. Sciolta l’opera dei congressi, emarginate le
posizioni democratico-cristiane di Murri, il movimento cattolico accettò di
fatto la realtà dello stato liberale, operando piuttosto per acquisire peso e
influenza nello stato e nella società. Contemporaneamente anche la classe
dirigente liberale attenuava di molto il proprio laicismo, preoccupata in primo
luogo di costruire un argine a difesa dell’ordine sociale contro le sinistre.
Giolitti, pur essendo ostile ad ogni forma di clericalismo, si fece interprete di
questa tendenza, attuando una progressiva apertura ai cattolici motivata, oltre
che dalle mutate condizioni storiche, anche da una considerazione di carattere
politico. Nacquero così i primi accordi elettorali in chiave conservatrice,
condannati da Murri e dalla corrente democratico-cristiana. Nel 1905 Poi X
chiarì che i cattolici potevano intervenire alle elezioni politiche in quei
collegi dove potesse risultare eletto un loro candidato o, in appoggio ai
liberali moderati, dove vi fosse un rischio di vittoria dell’estrema sinistra.
Sedici candidati cattolici risultarono così eletti nel 1909.
La crisi degli
equilibri giolittiana
L’alleanza elettorale con i cattolici
divenne sempre più necessaria al sistema giolittiano quanto più esso perdeva la
sua capacità di garantire l’equilibrio e la pace sociale. Negli ultimi anni del
governo di Giolitti lo scontro sociale e politico nel paese si andò
radicalizzando. Nel fronte imprenditoriale (dove nacque la confindustria,
l’associazione di categoria degli industriali), prevalsero tendenze favorevoli
ad un rapporto conflittuale con il movimento sindacale. D’altra parte, nel
partito socialista il riformismo turatiano incontrava crescenti difficoltà nel
tenere unito il partito in cui si fronteggiavano due ali estreme: la destra
d’Ivanoe Bonomi, che professava una linea di tipo laburista, escludendo la
prospettiva di una trasformazione socialista della società; dall’altro lato la
corrente rivoluzionaria( in cui emerse un nuovo leader, Benito Mussolini,
segretario della federazione di Forlì)che nel congresso di Reggio Emilia
conquistò la maggioranza. A Mussolini fu affidata la direzione dell’”Avanti!”,
il quotidiano del partito.
La diffusione del
nazionalismo
Un fatto nuovo e importante di questi
anni fu la diffusione, anche in Italia, del nazionalismo. Fenomeno inizialmente
di tipo letterario e culturale, limitato ad una ristretta cerchia
d’intellettuali, il nazionalismo assunse sempre più dichiaratamente politico:
nel 1910 venne fondata l’associazione nazionalista italiana. Le parole d’ordine
del nazionalismo erano la richiesta di uno stato forte, la necessità
dell’espansione coloniale per l’affermazione della grandezza dell’Italia, la
polemica contro il giolittismo, il parlamento e le istituzioni democratiche
“imbelli” e “corrotte”, la lotta antisocialista. Un programma vago e infarcito
di retorica. Nella formulazione che ne diede Enrico Corradini il nazionalismo
si mostrò capace di ottenere consensi crescenti, rivolgendosi alle masse con
un’abile miscela di imperialismo e populismo: iniziò allora a circolare il mito
dell’Italia proletaria, sfruttata e umiliata dalle nazioni ricche e potenti
come il proletariato lo era dalla borghesia.
La ripresa politica
coloniale: la conquista della Libia
In questo clima maturò la scelta giolittiana
di riprendere la politica d’espansione coloniale nel nord Africa, con la guerra
di Libia. Giolitti arrivò a questa decisione assecondando la pressione
dell’opinione pubblica nazionalista e dei maggiori gruppi industriali e
finanziari, nel tentativo di guadagnare il consenso per la propria politica.
Dopo la caduta di Crispi, l’Italia, pur rimanendo all’interno della triplice
alleanza, si era progressivamente riavvicinata alla Gran Bretagna e alla
Francia. Il governo italiano aveva accettato il dominio francese in Tunisia e
Marocco, ottenendo in cambio il diritto di puntare alla Libia, ultimo lembo
d’Africa tributario dell’impero ottomano; si voleva, secondo una logica diffusa
nell’età dell’imperialismo, conquistare quei territori prima che altri vi
mettessero le mani. Perciò l’esercito italiano occupò la Tripolitania e la
Pirenaica e anche Rodi e le isole del Dodecaneso, come atto di intimidazione
nei confronti della Turchia.
Le conseguenze della
guerra di Libia
La guerra di Libia, che comportò spese
ingentissime ed ebbe 3000 caduti, era stata presentata dalla propaganda
nazionalista come una grande opportunità economica. In verità lo scatolone di
sabbia non aveva al momento grande rilievo economico, né come fonte di materie
prime né come occasione di impiego per i lavoratori italiani, che vi affluirono
in quantità molto modeste. Quella conquista rispondeva soprattutto alle
tradizionali finalità politiche del colonialismo italiano: portare l’Italia nel
novero delle grandi e dirottare all’esterno le tensioni sociali esistenti nel
paese. Dal punto di vista economico ne traevano soprattutto vantaggio le
banche, gli armatori e l’industria pesante, grazie agli investimenti richiesti
dalla conquista e dalla creazione di una colonia.
Le elezioni del 1913 a
suffragio universale maschile
Alla scadenza della legislatura,
Giolitti si presentò alle elezioni politiche. Furono queste le prime elezioni a
suffragio universale maschile della storia italiana: il diritto di voto fu
esteso a tutti i maschi maggiorenni non analfabeti e anche agli analfabeti,
purché avessero superato i trent’anni o assolto il servizio militare. In
occasione di queste elezioni, liberali e cattolici strinsero accordi a livello
locale:i cattolici si impegnavano ad appoggiare contro i socialisti i candidati
liberali conservatori nel cui programma non vi fossero iniziative sgradite alla
chiesa, come il divorzio o l’istruzione laica. L’accordo fra Giolitti e
cattolici (chiamato patto Gentiloni) aveva lo scopo di contrastare un possibile
successo elettorale dei socialisti grazie all’influenza dei cattolici sui
contadini, che costituivano la gran parte del nuovo elettorato. La sinistra
ottenne buoni risultati, ma la maggioranza liberale ebbe la meglio.
La crisi del sistema
politico Giolittiano
Ma i successi ottenuti con la guerra
di Libia e con le elezioni non poterono a lungo mascherare la crisi del sistema
giolittiano: l’aprirsi di una difficile fase economica, il grave passivo del
bilancio pubblico, i sempre più aspri conflitti sindacali, le violente
polemiche condotte da nazionalisti e socialisti rivoluzionari mettevano a dura
prova la capacità di mediazioni di Giolitti, che disponeva alla camera di una
maggioranza ampia ma eterogenea. Quando i ministri radicali si dimisero dal
governo, Giolitti rassegnò le dimissioni, convinto, come già era accaduto altre
volte negli anni precedenti, di poter riprendere entro breve tempo le redini
del paese. Ma questa volta le cose andarono diversamente: sotto il governo del
conservatore Antonio Salandra. L’Italia si avviò, infatti, verso la prima
guerra mondiale e verso una nuova, drammatica fase della sua storia.
(elettra d'a.)