
La scuola come specchio della società italiana, che riflette tutte le inefficienze, le furbizie, i vizi, i ritardi culturali, le improvvisazioni che contraddistinguono tutti gli altri ambiti della vita nazionale.
La nostra è una scuola vecchia di un secolo, il cui impianto progettato dal senatore-filosofo Giovanni
Gentile è rimasto sostanzialmente inalterato nel corso degli anni, con al centro il liceo classico, un’istituzione
imperniata sulla cultura umanistica e destinata a formare il ceto politico e le classi dirigenti e, in subordine, le scuole tecniche e professionali deputate invece a fornire forza lavoro, cioè schiavi senza voce in capitolo all’interno della società.
Insomma un progetto di scuola che sancisce la divisione, che dovrebbe suonare ormai obsoleta, tra servi e padroni. Un’organizzazione degli studi che collide con lo sviluppo della modernità e che le riforme proposte da una classe politica votata al piccolo cabotaggio e al culto del proprio “particulare” non ha minimamente scalfito.
Afflitta da inutili quanto frustranti cavilli burocratici, che ne intralciano il funzionamento (si veda, per esempio, l’annuale nomina dei supplenti), la scuola italiana si sforza di imporre a coloro che la frequentano, dentro aule per lo più troppo affollate, un’erudizione enciclopedica, irraggiungibile dalla maggioranza degli studenti.
Una scuola povera anche negli edifici, spesso fatiscenti, nei materiali didattici a disposizione, nelle risorse economiche che all’istruzione vengono destinate dal bilancio statale, nelle noiose e polverose nozioni che impartisce. Una crisi che finisce per coinvolgere la professionalità
degli insegnanti, la motivazione degli studenti e la partecipazione dei genitori.
Mancano l’insegnamento, vero, delle lingue straniere, i soggiorni all’estero per gli
alunni, una preparazione tecnico-scientifica al passo coi tempi e un maggior collegamento col mondo del lavoro e con la vita.
Per migliorare le abilità linguistiche dei ragazzi, spesso assai
povere, sarebbe utile, secondo l'autore, ripristinare la pratica ormai negletta del
riassunto, così come quella di mandare a memoria brani di poesia
o di prosa. Soprattutto sarebbe opportuno incoraggiare i ragazzi
all'amore per la lettura, "molte letture, molte libere letture
liberamente commentate", come suggeriva Pasolini nelle sue
Lettere luterane.
I presidi dovrebbero essere in parte liberati dalle
incombenze di tutti i tipi che gravano oggi su di loro, e si
dovrebbero creare, all'interno di ogni istituto, almeno due
figure: una che si occupa della programmazione e della qualità
della didattica, l'altra delle questioni giurico-amministrative.
Il saggio che Giovanni Pacchiano
(Milano, 1942) dedica alla scuola secondaria superiore italiana
è
uscito nella prima edizione presso Anabasi nel 1993 ed ha quindi ormai
più di vent’anni, ma non li dimostra. La disamina del mondo
dell'istruzione in esso contenuta è più che mai attuale.
Lasciata la scuola, l'autore si è dedicato alla critica
letteraria firmando autorevoli recensioni librarie per i grandi
quotidiani nazionali, ha pubblicato monografie e romanzi,
insomma si è trasformato in uno scrittore. E il suo saggio sulla
scuola si segnala, infatti, per una qualità di scrittura non comune.
L’esame dei problemi della scuola procede seguendo un registro narrativo, che rende la lettura del saggio appassionate. L'autore racconta aneddoti significativi e utilizza un linguaggio vario, lessicalmente ricco, talvolta icastico, ma mai banale e stereotipato. Non si limita, come si usa invece oggi, a snocciolare freddi dati statistici, che comunque -ci avverte Pacchiano- vanno sempre interpretati e non accettati acriticamente, ma ci invita a ragionare, in maniera logica e serrata, su come è la scuola e come potrebbe essere.