
Dante nasce a Firenze tra il 21 maggio e il 20 giugno 1265 da una famiglia di tradizione guelfa appartenente alla piccola nobiltà cittadina in declino. Poco sappiamo della sua formazione giovanile che tuttavia risente dei principali verseggiatori toscani (Dante da Maiano, Lapo Gianni, Gianni Alfani), delle esperienze dei poeti siciliani e provenzali, di Guittone e Bonagiunta, e soprattutto del Guinizzelli, di Guido Cavalcanti e Brunetto Latini, riconosciuti in più occasioni come maestri.
Probabilmente nel 1285 sposa Gemma di Manetto Donati, da cui avrà almeno tre figli (Iacopo, Pietro, Antonio), forse addirittura quattro (Giovanni). Dante partecipa come feditore a cavallo alla battaglia di Campaldino del 1289 e in seguito alla presa di Caprona. Nel 1290 muore Beatrice, figlia di Folco Portinari, andata in sposa a Simone de’ Bardi.
Nel 1292-93 Dante riordina i materiali della Vita nuova. Nel 1295 entra a far parte della Corporazione dei medici e degli speziali. Inizia la sua attività politica: in questo periodo è eletto nel Consiglio del popolo, quindi nel Consiglio dei Cento. Nel 1300 assume la carica di priore e si impegna nella lotta contro l’ingerenza pontificia negli affari fiorentini.
Nel gennaio 1302, al ritorno da una missione diplomatica per conto di papa Bonifacio VIII, apprende di essere accusato di baratteria e altri reati. Successivamente sarà condannato a morte in contumacia. Nel frattempo Carlo di Valois, inviato dal papa, si era impossessato della città riportando i Neri al potere e avviando una spietata stagione di rappresaglie. Nel 1303 sperimenta la dolorosa esperienza dell’esilio. Tenta di rientrare a Firenze appoggiando l’impresa, rivelatasi vana, di Scarpetta degli Ordelaffi, signore di Forlì. Quindi è a Verona, presso Bartolomeo della Scala.
Dante ripara a Treviso, poi in Lunigiana, alla corte dei Malaspina; forse a Lucca. Sono gli anni in cui il poeta compone il De vulgari eloquentia e il Convivio, che lnon porta a termine. Inizia a scrivere l’Inferno. Tra il 1307 e il 1311 soggiorna a Poppi, nel Casentino, ospite del conte Guido di Battifolle. Verso la fine del 1310 scrive un’epistola ai principi e ai popoli italiani ravvisando nella figura dell’imperatore Arrigo VII le speranze di una pacificazione. Nel 1311 viene escluso per rappresaglia dall’amnistia concessa agli esuli guelfi. Negli anni 1312-13 Conclude probabilmente il Purgatorio. Si trasferisce a Verona alla corte di Cangrande della Scala, dove inizia a comporre il Paradiso e forse il De Monarchia. Nel 1315 rifiuta le condizioni per il suo rientro a Firenze. Tra il 1315 e il ’17 compone l’Epistola a Cangrande. Nel 1318 o forse nel 1320 arriva a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta. È di questo periodo la conclusione e revisione della Commedia e la stesura della Questio de aqua et terra. A Ravenna Dante muore, di ritorno da un’ambasceria a Venezia, nel 1321.
L'importanza della figura di Dante nella cultura
italiana e internazionale
Esplorata in ogni sua parte da una bibliografia vastissima, la più ricca in assoluto tra gli autori della nostra letteratura, l’opera di Dante continua ad attirare l’attenzione di studiosi e interpreti.
Dante
innova scegliendo il volgare italiano come lingua della poesia e della cultura in genere, con una consapevolezza ineccepibile, assolutamente moderna. La lingua e lo stile della Commedia, momento conclusivo di questo
percorso intellettuale, si collocano senza dubbio nell’ambito di una sperimentazione delle forme in cui ampi spazi vengono riservati alle lingue speciali come al
sermo rusticus, al lessico cortese come a quello petroso già utilizzati nel corso della precedente produzione giovanile: “è impossibile - ha scritto Carlo Dionisotti - in una storia della lingua italiana sopravvalutare l’importanza di Dante [...]. Dante ha significato la vittoria del toscano e la decadenza a dialetto di ogni altra parlata italiana”.
L’incremento della parole dantesche, rispetto alla langue a sua disposizione, è in ogni caso vastissimo: basti pensare che attualmente il lessico dell’italiano è costituito per il 56% da vocaboli già duecenteschi, per il 15% da quelli immessi dal solo Dante, per il 19% da lessico trecentesco, mentre solo una minima percentuale è rappresentata da un apporto successivo.
Più di ogni altra opera, la Commedia, rispetto alle strategie retoriche e letterarie messe in atto nel De vulgari eloquentia, rappresenta un’idea assolutamente nuova nella letteratura del Trecento. In primo luogo Dante è consapevole del suo ruolo di precursore e fondatore di una tradizione italiana del tutto autonoma rispetto ai provenzali o alla cultura latina medievale. Il tratto specifico che egli adopera nel poema non rispecchia più la gerarchia degli stili e del linguaggio proposti a suo tempo nel De vulgari. Dante mette a frutto un plurilinguismo e un pluristilismo in cui si trovano insieme tragedia, commedia e elegia, stile alto e stile basso, lingua dotta e voci gergali, sermo humilis e linguaggi tecnici, con un potenziale lessicale di quasi trentamila termini. Dante non si rivolge più a un pubblico uniforme, aristocratico, quantitativamente ristretto, ma a una ampia platea eterogenea e borghese.
L’esperienza intellettuale di Dante viene profondamente segnata dal motivo biografico dell’esilio, un esilio non voluto eppure sopportato con dignità e coscienza: un’esperienza che implicava una lacerazione affettiva e personale oltre che materiale e perfino economica. Inoltre cresceva nella sensibilità dell’intellettuale sradicato la consapevolezza di essere una vittima delle fazioni e del loro gioco violento per il potere. Ma sopra ogni altro aspetto la tragedia dell’esilio opera in Dante nella direzione di un reale sganciamento culturale da Firenze, e provocò sul fronte letterario un’accelerazione del processo di superamento dello stilnovismo giovanile, con la crescita di una problematica sovra-municipale e etico-civile. Lo sviluppo di un intento teorico e linguistico con il De vulgari eloquentia (composto durante i primi anni dell’esilio e contemporaneamente al Convivio) segnava un’intenzione chiara dello scrittore: ridefinire davanti a sé e al proprio operato gli strumenti di un percorso inevitabile a fianco del volgare come lingua di grande dignità letteraria, e insieme prendere coscienza che le mutate condizioni della lingua letteraria corrispondevano a una trasformazione in senso laico della cultura.
Dante rifiuta il modo fiorentino di fare politica, una procedura senza quartiere e senza scrupoli, meschina, violenta, legata agli interessi dei piccoli gruppi e non a quelli della collettività. Esilio e distacco da Firenze rappresentano la sconfitta della politica, incapace di produrre una rivoluzione nella coscienza civile. L'esperienza di Dante anticipa tanto a livello biografico che letterario la vexata quaestio dell’incomprensione della società nei confronti dell’intellettuale e inoltre un elemento ancora più interessante: il difficile rapporto tra lo scrittore e le strutture del potere, tra il litteratus e il princeps, un dualismo in grado di resistere in Italia almeno fino alla Rivoluzione francese, alle soglie dell’Ottocento.
Dante introduce la figura dello scrittore laico a tutti gli effetti, sganciato da qualsiasi forma di compromissione con la struttura ecclesiastica (diversamente dal Petrarca), ma già avviato a divenire poeta cortigiano, amico dei principi anche se con margini di piena autonomia letteraria. Diversamente da quanto accadeva in alcune geografie culturali ben precise, ad esempio in Francia, la storia degli intellettuali italiani non sempre coincide con l’istituzione dell’università: molte città italiane sono dotate già dal XIII secolo di importanti facoltà scientifiche, giuridiche, filosofiche (Salerno è famosa per gli studi di medicina, Bologna per il diritto, Parigi per la teologia e la filosofia), ma l’esempio di Dante è forse più vicino all’esperienza della curia federiciana. Il rapporto con il potere è molto stretto, anche se la corte di Federico II prevedeva l’esistenza di intellettuali funzionari, più che di politici tout court: ma in entrambi i casi siamo di fronte a intellettuali che rifiutano il ruolo definito dell’insegnamento universitario in quanto dimensione poco aperta alla scrittura creativa, e propensa invece a una attività di ricerca e di studio erudito. Nell’atteggiamento dei poeti siciliani non mancano dosi di improvvisazione, o meglio di dilettantismo professionale (mentre è assolutamente indiscutibile la straordinaria qualità letteraria della loro produzione lirica).
Quella di Dante è invece una scelta che privilegia, da un certo momento in avanti, le sole ragioni della letteratura. La novità di Dante, il messaggio assolutamente nuovo che egli traccia nel libro I del Convivio, è quello di una divulgazione culturale su scala più larga rispetto a una poesia aristocraticamente appartata. Dante prende atto delle mutate condizioni di tutto il sistema istituzionale della cultura: all’intellettuale si presenta ora l’occasione unica di sostenere un alto magistero sociale, e di ricucire in questo modo lo strappo morale e il vuoto di senso provocato dalla politica. E la differenza è anche nelle strutture economiche di una società precapitalistica, che può offrire canali di intervento e occasioni professionali: quando anche Dante viene accolto dai principi dell’Italia settentrionale, egli mantiene effettivamente una propria indipendenza di giudizio, e i suoi servigi diplomatici sono semplici collaborazioni occasionali.
Con la Commedia Dante agisce a un livello più alto di comprensione e denuncia della storia. Non cambia la sua naturale attenzione alla vita politica fiorentina e italiana; non cambia il tono polemico delle sue affermazioni, sebbene nel tempo egli avesse avvertito quanto fosse difficile mantenere una propria indipendenza di giudizio. La diagnosi di Dante è nella Commedia un’analisi dettagliata dell’umanità, poi riveduta alla luce di un’istanza profetica, escatologica, globale: ma in quelle pagine la poesia recupera il messaggio-guida che Dante aveva attribuito all’intellettuale già a partire dal Convivio, cioè una funzione specifica e critica di elaborazione e trasmissione di prodotti culturali.
La Divina Commedia
La ricchissima argomentazione letteraria e filosofica, politica e estetica, umana e teologica che Dante compie attraverso la poesia della
Commedia ha dato luogo nel tempo a una
straordinaria proliferazione di interpretazioni e letture critiche. Risulta quasi impossibile tenere presenti i contributi che sull’opera dantesca, e in particolare sulla Commedia, sono stati scritti nel corso dei sette secoli che ci separano dalla prima diffusione del poema.
Lo stesso Boccaccio, nell’ultimo periodo della sua vita, si
prodigò nella diffusione del testo dantesco con le Esposizioni sopra la Comedia di Dante, rimaste incompiute al canto XVII dell’Inferno e frutto di una serie di letture pubbliche che l’autore
tenne, sul finire del 1373, per conto del comune di Firenze.
Con la composizione della Commedia Dante operava una sintesi di altissimo livello nel quadro della cultura medievale: termine di confronto non soltanto per i suoi ammiratori, ma anche per coloro che (come il Petrarca) manifestarono dissenso, indifferenza, estraneità rispetto a una poesia che dichiaratamente sceglieva il piano della “popolarità” e della larga diffusione. La lingua volgare (fiorentino illustre) che Dante adopera nel testo era stata già a suo tempo difesa e preparata all’impresa, e questa soluzione non fece che accrescere una fama che peraltro si era consolidata a partire dalle rime giovanili e dai trattati composti durante l’esilio.
L’appellativo “divina”, che s’accompagna ormai abitualmente al titolo dell’opera somma di Dante, compare per la prima volta nel Boccaccio, che con questo aggettivo volle mettere in luce l’altezza del poema; ma fu unito al titolo dato dal poeta, Comedìa, solo nel 1555, nell’edizione curata da Ludovico Dolce (1508-1568), per gli editori veneziani Giolito. L’accostamento arbitrario ebbe però successo, tanto da diventare definitivo. Nell’epistola a Cangrande della Scala, Dante afferma “Incipit Comedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus” (Comincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi), e spiega il titolo: esso, secondo le leggi della retorica medievale, deve rispondere sia all’argomento sia allo stile del poema, che comincia in modo triste e termina lietamente, e che è scritto in un linguaggio remissus et humilis (dimesso e umile), come si addice al genere “comico”.
Il poema consta di 14233 versi endecasillabi, in terzine a rima incatenata, suddivisi in 100 canti di diversa lunghezza. A loro volta, i canti sono distribuiti in tre parti distinte (Inferno, Purgatorio e Paradiso) dette cantiche, ciascuna delle quali ne comprende 33 (il primo canto ha carattere introduttivo, per cui l’Inferno è formato da 34 canti). In questa ripartizione è già chiara la ricorrenza simbolica del numero 3 (e del suo multiplo 9) che nella cultura medievale ha un complesso significato di origine religiosa e magica, di cui è possibile trovare molte conferme all’interno dell’opera. Tra queste, la più evidente è l’avvicendarsi di tre guide attraverso i tre regni dell’Oltretomba: Virgilio nell’Inferno e nel Purgatorio (qui, dal XXI canto, a Virgilio si aggiunge un altro poeta latino, Stazio), fino al Paradiso terrestre; Beatrice nel Paradiso fino alla candida rosa dei beati, nell’Empireo; san Bernardo nell’Empireo, fino alla conclusiva contemplazione di Dio. Nove sono poi i cerchi dell’Inferno, nove le ripartizioni del Purgatorio, nove i Cieli del Paradiso. Il viaggio è raccontato in prima persona, e s’immagina compiuto all’età di 35 anni con l’anima e con il corpo, nel 1300 (anno del giubileo), nei giorni compresi tra il 7 aprile, Venerdì Santo (o, secondo altri, il 25 marzo), e il 14 aprile.
Le date di composizione del poema sono ancora controverse; tuttavia, la maggioranza dei critici contemporanei concorda nel ritenere che l’Inferno sia stato composto tra il 1304 (o 1306) e il 1309, il Purgatorio tra il 1309 e il 1315 circa, il Paradiso dopo il 1316 ed entro il 1321. Non ci sono pervenuti i manoscritti danteschi, che pure erano ancora conosciuti nel Quattrocento, come testimonia l’umanista Leonardo Bruni, autore di una Vita di Dante (1436). Il grande numero e la varietà dei manoscritti a noi giunti (oltre settecento) mostrano tuttavia che l’opera ebbe immensa diffusione e fortuna nel corso dei secoli, presso ceti sociali disparati e in vari ambienti culturali. Qualitativamenten Imoprtante fu l'opera di divulgatore e copista dell’opera dantesca svolta da Giovanni Boccaccio.
Assai ardua è la ricostruzione precisa delle fonti a cui Dante attinse: la sua biblioteca, infatti, è andata dispersa, e i richiami diretti a singoli autori fatti dal poeta sono piuttosto scarsi. Tuttavia, alcuni legami con la tradizione appaiono chiari. Il principale è proprio l’idea-base della Commedia, ossia il viaggio nell’Oltretomba. Tra i classici, l’autore al quale Dante si ispira maggiormente è Virgilio, che nel VI canto dell’Eneide fa scendere Enea nell’Ade, il regno ultraterreno pagano; ma già nell’Odissea di Omero, in un episodio analogo a quello virgiliano, Ulisse si reca agli Inferi. Inoltre, all’epoca di Dante era diffusissima la conoscenza del poeta latino Ovidio, che nelle sue Metamorfosi racconta di varie discese nell’Oltretomba. Anche la letteratura medievale è ricca di esempi di viaggi ultramondani a scopo di edificazione morale e religiosa, come i Dialoghi di san Gregorio Magno e la Legenda aurea di Jacopo da Varagine. Persino la produzione cavalleresca contempla l’idea del viaggio come prova, ricerca di perfezione, mezzo per misurare le proprie virtù morali. Dante infine conosceva le cosiddette “visioni”, diffusissime all’epoca, nelle quali si descrivevano le pene e i premi dell’aldilà, o si profetizzava il futuro dell’umanità. Fra i trattati, va inserito anche il Libro della Scala, che appartiene alla letteratura agiografica musulmana, e ha per tema il viaggio ultraterreno di Maometto. Accanto ai testi citati, non potevano mancare i poemi allegorico-didattici, come il Tesoretto di Brunetto Latini. Più che di “fonti” in senso stretto, è preferibile parlare di motivi ricorrenti in tutta la letteratura dell’epoca, che rientravano nel bagaglio culturale dell’autore, ma che non rendono conto, se non in minima parte, della grandiosità e dell’elevatezza della sua opera.
Per la struttura dei tre regni ultraterreni, Dante accoglie la visione geocentrica sostenuta da Tolomeo e accettata da San Tommaso e dalla Scolastica, suoi costanti punti di riferimento filosofico. Nella rappresentazione tolemaica, la Terra è una sfera divisa in due emisferi, dei quali solo quello settentrionale abitato. Al centro di questo, Dante pone Gerusalemme e ai suoi antipodi la montagna del Purgatorio, sulla cui cima si trova il Paradiso terrestre. La Terra è circondata da nove sfere concentriche, ruotanti l’una dentro l’altra, tutte contenute da una decima, l’Empireo: esso è la dimora di Dio, degli Angeli e dei beati, ed è, invece, immobile.
Inferno
Il viaggio comincia con la discesa nell’Inferno, concepito come una voragine a forma di tronco di cono rovesciato, una specie di imbuto volto verso il centro della Terra, in cui i dannati sono distribuiti in cerchi sempre più stretti
man mano che aumenta la gravità dei peccati. Dopo aver superato, con l’aiuto di Virgilio, l’opposizione di tre fiere, la lupa, la lonza (la lince), il leone, Dante passa nell’Antinferno, dove sono gli ignavi, “che visser sanza ’nfamia e sanza lodo” (Inf., III, 36), e poi nel primo cerchio, dove è collocato il Limbo; qui si trovano coloro che sono morti senza battesimo e i grandi spiriti dell’antichità vissuti prima di Cristo. Tra il secondo e il quinto cerchio sono puniti gli incontinenti, ossia coloro che non seppero tenere a freno le passioni (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi). Il sesto cerchio ospita gli eretici e gli epicurei. Nel settimo, diviso in tre gironi, si trovano i violenti contro il prossimo (omicidi, predoni), contro se stessi (suicidi, scialacquatori), contro Dio, natura, arte (bestemmiatori, sodomiti, usurai). L’ottavo cerchio è diviso in dieci bolge, e accoglie quei fraudolenti che ingannarono chi non si fidava di loro, ripartiti in diverse categorie. Il nono, infine, racchiude in quattro zone i traditori, la peggior specie di fraudolenti, perché hanno frodato chi aveva fiducia in loro, ossia i parenti, la patria, gli ospiti, i benefattori. Al fondo del nono cerchio, confitto al centro della Terra, sta Lucifero, traditore di Dio, che con tre bocche maciulla Giuda, traditore di Cristo, e quindi della Chiesa, Bruto e Cassio, traditori di Cesare, cioè dell’Impero.
Purgatorio
Il secondo regno, il Purgatorio, è una montagna circondata dal mare, suddivisa in sette gironi, o cornici, ed è guardato dall’anima di Catone l’Uticense. Prima di entrarvi, però, Dante attraversa l’Antipurgatorio: qui, coloro che si pentirono nell’ultimo istante di vita attendono il momento in cui potranno entrare ad espiare i peccati commessi. Costoro sono divisi in scomunicati, pigri, morti di morte violenta, prìncipi negligenti. Una volta giunti in Purgatorio, i peccatori scontano le colpe in un cammino penitenziale che va dalla base verso il vertice della montagna. La purificazione procede partendo dal più grave dei sette peccati capitali, la superbia, secondo un ordine inverso rispetto a quello dell’Inferno (superbia, invidia, iracondia, accidia, avarizia e prodigalità, golosità, lussuria).
Inoltre, mentre nell’Inferno i dannati subiscono la pena per il più grave dei loro peccati, qui le anime sostano in ogni cornice, affrontando una diversa penitenza per ciascuna delle loro colpe: per entrare in Paradiso, infatti, l’espiazione e la purificazione devono essere complete. Alla fine, si giunge alla cima del monte, in una selva amena, dove ha sede il Paradiso terrestre. Qui le anime s’immergono nelle acque del Letè e dell’Eunoè; e sempre qui Virgilio, simbolo della ragione umana, si congeda: egli infatti, in quanto non cristiano, non è più idoneo a guidare Dante nell’ultima parte del viaggio, e per questo a lui subentra Beatrice, simbolo della Grazia.
Come nei cerchi dell’Inferno si incontrano varie figure demoniache con specifiche funzioni, nel Purgatorio ogni girone è guardato da un angelo; e come nell’Inferno, anche nel Purgatorio vige la legge del contrappasso, che regola la forma della pena fisica subìta dagli espianti.
Il contrappasso (il termine è in Inf., XXVIII, 142: “contrapasso”) ricorda la legge biblica del taglione e prevede una sofferenza commisurata direttamente alla colpa. Esso impone un comportamento o analogo o antitetico a quello che caratterizzava il peccato commesso.
In ambedue i regni, le anime si presentano a Dante con sembianza corporea, ossia con la fisionomia che avevano da vivi, anche se spesso il loro aspetto è stravolto dalla sofferenza. Vi è però qualche eccezione, dovuta ad un particolare tipo di pena.
Paradiso
Il terzo regno, il Paradiso, ospita i beati. Essi, diversamente dai dannati e dagli espianti, non sono obbligati a risiedere in luoghi specifici, ma abitano tutti nell’Empireo, il cielo dove si trova Dio. Tuttavia, per incontrare Dante, le anime si muovono, e si dispongono nell’arco dei nove cieli. Ognuna si presenta nel cielo che l’ha influenzata di più durante la vita, determinando le caratteristiche del suo comportamento. In tal modo Dante conferisce al Paradiso una struttura corrispondente a quella dell’Inferno e del Purgatorio, nel rispetto del principio di simmetria che caratterizza tutta l’opera.
Va notato però che le anime assumono sembianza umana solo nel primo cielo e poi nell’Empireo. In tutti gli altri cieli si presentano sotto forma di luci, di
essenze incorporee. Le anime beate, pur godendo tutte della visione di Dio, hanno diversi gradi di beatitudine così come nell’Inferno e nel Purgatorio si hanno diversi gradi di sofferenza. Gli spiriti del Paradiso si dividono infatti in
mondani, attivi e contemplativi. Appartengono al primo gruppo coloro che mancarono ai voti per violenza altrui (cielo della Luna), gli spiriti attivi per conseguire fama terrena (cielo di Mercurio), gli spiriti amanti (cielo di Venere). Nel secondo gruppo, si trovano gli spiriti sapienti (cielo del Sole), quelli militanti per la fede (cielo di Marte), gli spiriti giusti (cielo di Giove). Il terzo è composto dagli spiriti contemplativi (cielo di Saturno), che in vita si dedicarono totalmente alla preghiera e all’immedesimazione con la divinità. Nel cielo delle Stelle fisse, Dante assiste al trionfo di Cristo, di Maria e dei beati. Nel Primo Mobile vede il trionfo degli Angeli, che in forma di nove cerchi fiammeggianti ruotano attorno ad un Punto luminosissimo, Dio. Nell’Empireo i beati sono raccolti in una candida rosa. Dante vi giunge sotto la guida di San Bernardo, simbolo del Magistero della Chiesa, al quale è stato affidato da Beatrice, prima che ella tornasse in mezzo agli altri beati. Il Santo prega la Vergine di aiutare Dante nell’ultima sublime esperienza: la contemplazione di Dio. La preghiera viene accolta e Dante, percosso da un “fulgore”, può contemplare, per un attimo, i misteri della Fede: l’Unità e Trinità di Dio, e l’Incarnazione di Dio.
Personaggi della Divina Commedia
Nel corso del suo viaggio, Dante incontra una vera e propria
folla di personaggi: sono uomini e donne, antichi e contemporanei, realmente esistiti o creati dalla letteratura.
Nel mondo buio e cupo dell’Inferno, spiccano i guardiani terribili o ripugnanti, come
Caronte, Minosse, Cerbero,
Flegias. Alcuni dei peccatori sono ostinati, tuttora ribelli alla legge divina, come
Capaneo o Vanni Fucci; altri riconoscono con una vana disperazione la colpa commessa, come
Pier della Vigna, o provano un dolente rimpianto della vita terrena, come il goloso
Ciacco. Francesca da Rimini è delicata, gentile e ancora appassionata nell’amore lussurioso che l’ha unita a
Paolo e che sconta insieme con lui; Farinata degli Uberti ha una possente statura morale, che anche nel regno dell’Inferno lo conserva “magnanimo”; il suo compagno di pena,
Cavalcante Cavalcanti, è un padre tenero e disperato. Il racconto epico dell’ultimo viaggio di
Ulisse e quello straziante del conte Ugolino sono fra gli episodi più celebri dell’intero poema. Analoga capacità di dare vita e personalità poetica si trova in altre figure ed episodi, come quelli, pur diversissimi, di
Filippo Argenti, di Brunetto Latini, di
Guido da Montefeltro. Nessuno dei peccatori, anche nel caso delle metamorfosi e delle mutilazioni più mostruose, perde mai completamente i suoi connotati umani; in pochi l’esperienza che li ha condotti alla perdizione ha cancellato del tutto la coscienza o una qualche virtù morale. Anche per questo
gli abitanti dell’Inferno colpiscono fortemente l’attenzione del lettore, che avverte tutta la contraddizione tra una statura psicologica o morale che resta alta e la bassezza del peccato che li ha perduti per sempre.
L’Inferno è la cantica in cui dominano il dramma, il movimento, i rumori, le tonalità forti.
L’atmosfera del Purgatorio è invece elegiaca e melanconica, quasi sommessa: qui le anime sono in una condizione di passaggio. Esse attendono con ansia il momento del riscatto definitivo, e solo una lieve nostalgia le tiene ancora legate alla Terra. I sentimenti che predominano sono gli affetti familiari, i ricordi di amicizia, il rispetto ancora forte per i maestri di vita o di cultura. Ed ecco che si delineano le figure degli amici: il musico Casella, Belacqua, Nino Visconti, Forese Donati. Nobile e sorridente appare Manfredi, figlio di Federico II, pentito dell’ultima ora: in lui, come nei suoi compagni dell’Antipurgatorio, il rimpianto per il passato, il rammarico per le colpe commesse, il rimprovero per i torti subìti, sono soltanto cenni velati di melanconia, superati dall’aspettativa della salvazione eterna. In Purgatorio le anime riconquistano la fraternità e il rispetto perduto quand’erano preda delle passioni terrene: i prìncipi negligenti siedono pensosi accanto ai loro nemici d’un tempo; i superbi ammettono con franchezza il loro peccato, e il miniatore Oderisi lascia ad altri, senza rimpianto, la fama d’essere il migliore, goduta nel mondo. Sordello e Stazio hanno incontri indimenticabili con il loro ispiratore e maestro d’arte e di vita, Virgilio. Tutta la cantica si colora di tinte morbide: le albe sono sfumate, favorevoli ai sogni premonitori; i tramonti sono tenui; le notti trascorrono silenziose, mentre i pellegrini dell’Oltretomba attendono di riprendere il cammino, interrotto al calare delle tenebre.
Nel Paradiso, il processo di liberazione dal peccato è compiuto, e l’impegno dottrinale e teologico di Dante si fa senz’altro più forte. Ciò non significa, tuttavia, che i personaggi perdano la loro intensa umanità. Basta pensare in primo luogo al tenero sorriso di Beatrice, vòlto a confortare il suo protetto e a “quietare” i suoi dubbi, e al suo atteggiamento di madre “sovra figlio deliro” (delirante per la febbre) con cui si accinge a impegnative spiegazioni teologiche. Tutti i beati, pur nella loro spiritualità, che a qualcuno è apparsa astratta, conservano tuttavia uno spessore psicologico che li rende ancora partecipi di una viva umanità. Piccarda Donati completa la triade delle dolci figure femminili, cominciata con Francesca nell’Inferno e proseguita con Pia de’ Tolomei nel Purgatorio. Giustiniano e Carlo Martello, ai quali Dante affida il compito di ribadire le sue teorie politico-religiose, fanno vibrare nella difficile trattazione teorica impeto e partecipazione personale. Persino san Pietro, il primo papa, la voce più autorevole dell’antica Chiesa, esprime una forte carica emotiva, quando usa parole accese di sdegno nell’invettiva contro la degenerazione dei suoi successori. Al centro del Paradiso, per ben tre canti (XV, XVI, XVII), domina la personalità di Cacciaguida, trisavolo di Dante. Egli è l’antenato affettuoso e riverito, il fustigatore severo dei costumi, il solenne profeta dell’esilio, e infine colui che sancisce, in modo definitivo, l’alta missione apostolica per la quale Dante è stato prescelto.
La struttura della Commedia rispetta quella dei poemi didascalici della tradizione. Infatti, prima di tutto, la poesia di Dante vuol essere di ammaestramento religioso e morale. Il viaggio è la metafora di un itinerario interiore, che dalla “selva” del peccato conduce, con l’aiuto divino, alla salvezza. La rigida simmetria che abbiamo osservato nel poema, le ripartizioni del mondo ultraterreno, i continui richiami simbolici ripetono motivi propri della cultura e della sensibilità medievali: la poesia, infatti, consente a Dante di concentrare la sua esperienza di uomo, di dotto, di cristiano, in una sintesi in cui la potenza dell’immaginazione convive e si compenetra con un forte intento educativo. Alla mentalità medievale riporta anche l’uso dell’allegoria: il lettore viene costantemente invitato a cogliere ogni sfumatura, per comprendere il significato più vero e più profondo, nascosto dietro l’immagine che gli si offre. Inoltre, Dante spazia attraverso una gamma pressoché inesauribile di questioni. Teologia e scienza, cultura e politica, filosofia e ideologia concorrono a costruire un mondo concettualmente elaborato, complesso, denso di significati. Una riflessione continua e attenta è indispensabile per cogliere e comprendere, almeno in parte, la molteplicità di riferimenti che si trovano nel testo. Molto spesso, la materia è ardua, i presupposti dottrinari difficili, le concezioni cosmologiche quasi indecifrabili. Non solo il lettore moderno, ma anche quello medievale doveva restar perplesso di fronte ad essi. Persino Dante ne è consapevole, se sente, più volte, il bisogno di avvertire ed esortare coloro che sono “in piccioletta barca / desiderosi d’ascoltar” (Par., II, 1-2): chi non possiede gli strumenti culturali indispensabili a seguirlo, farà meglio a non mettersi “in pelago” (in mare). “L’acqua ch’io prendo già mai non si corse”, afferma il poeta (Par., II, 7): non a caso egli ha bisogno dell’aiuto di Minerva (la sapienza), di Apollo (la poesia) e delle nove Muse (le dee che proteggono le arti e le scienze), che lo accompagnano. I versi alludono alla difficoltà del Paradiso, ma valgono per l’intero poema. Tuttavia, lo schema teologico, arido sebbene grandioso, l’impianto concettuale rigido, l’intricato sistema di rimandi allegorici non sono sufficienti a spiegare la grandezza della Commedia. Essa non si limita a ripercorrere la strada dei grandi trattati medievali, ma è animata in ogni sua pagina da sentimenti e da emozioni che le conferiscono una intensità umana assolutamente nuova. Il genio e la modernità di Dante stanno proprio in questo: egli supera l’astrattezza e la freddezza delle teorie, e riesce a riversare nel suo racconto la linfa della partecipazione e dell’esperienza individuale.
Il passo iniziale Dante lo compie scegliendo di narrare il viaggio in prima persona, così diventa protagonista e testimone diretto: il suo è un itinerario personale verso la salvazione, ma è anche un contatto e uno scambio con decine e decine di personaggi che lo coinvolgono emotivamente nelle loro vicende. Sono uomini che hanno amato, odiato, sofferto, peccato: in una parola, che hanno vissuto. L’autore può intervenire nei loro confronti con giudizi, ammonimenti, appelli. Può giudicare i loro comportamenti in vita; può e deve condannare, perché a mano a mano che il suo viaggio procede egli si impadronisce in modo sempre più completo della verità. Ma il protagonista, il pellegrino Dante, alterna i più diversi stati d’animo: dal rispetto all’ira, dalla pietà alla commozione, dallo stupore all’ammirazione. La sua magistrale capacità artistica fa sì che ogni singola anima si presenti al tempo stesso come esempio di carattere universale e come irripetibile personalità individuale. L’obiettivo principale resta quello di insegnare, di trasmettere una verità. Ma intanto, gli eventi continuano ad essere reali, concreti; i personaggi balzano vivi davanti ai nostri occhi. Nei loro colloqui ritornano affetti e memorie, nostalgie e rimpianti. E Dante, che pure applica ai peccatori le punizioni meritate con una durezza inflessibile, quasi spietata, non dimentica mai di compiangere la sofferenza, o di tener fede ai valori dell’amicizia e del rispetto, e non manca di riconoscere le virtù anche di coloro che in vita gli sono stati avversari. E se si trova a faccia a faccia con chi si è macchiato di colpe imperdonabili non solo di fronte a Dio, ma anche davanti agli uomini e alla società, non nasconde le sue reazioni di cittadino e le sue insofferenze di uomo. Infatti, come e più dei personaggi, anche lui è uomo, sebbene investito di un privilegio, qual è il viaggio, da vivo, nel mondo dell’aldilà. Ed è capace di pronunciare parole sferzanti, quando ricorda episodi che turbano la sua retta coscienza; mostra disprezzo, e non risparmia un tagliente sarcasmo se il suo interlocutore gli appare responsabile di aver provocato o di aver contribuito alla degradazione dei costumi e della società civile. Ma il pellegrino si commuove davanti allo spettacolo della sofferenza, si intenerisce se incontra l’amico che sta espiando, e che poi sarà salvo. Nell’Inferno vive attimi di paura o di sgomento; nel Paradiso è trascinato da ardenti slanci di misticismo. E sullo sfondo è sempre presente il dignitoso atteggiamento di chi, destinato a diventare esule senza colpa, ascolta nel corso del viaggio molte oscure, dolorose profezie, e accetta con nobile risolutezza le conferme dell’amara sorte che lo attende.
La caratteristica fondamentale della poesia dantesca, da tempo messa in rilievo dalla critica, consiste nell’aver saputo legare in modo indissolubile i due piani sui quali si sviluppa l’intera Commedia, quello astratto ed eterno da un lato, quello concreto e mortale dall’altro, senza sottovalutare o svilire mai né il primo né il secondo. Ogni figura ed episodio vivono di questo doppio tempo. Eternità e tempo dell’uomo si integrano e agiscono l’una sull’altro senza fratture o stonature. Ogni sentenza, ogni riflessione, ogni giudizio hanno la solennità sacra di ciò che è perpetuo, immutabile; ma l’asserzione di una verità perenne non cancella i motivi di rimpianto e di nostalgia propri dell’essere uomini, e non esclude, anzi rafforza, la possibilità di un intervento attivo nel mondo dei vivi.
Le innumerevoli varietà di situazioni, episodi, argomenti che si trovano nella Commedia sono consentite, in gran parte, dalla gamma di soluzioni stilistiche che Dante ha adottato all’interno del flessibile schema della poesia “comica”. Dai toni robusti del realismo si passa alle sfumature temperate della poesia lirica; il linguaggio colorito dell’invettiva lascia il posto a quello grave della profezia religiosa o politica; lo stile umile di certi episodi dell’Inferno non turba e non ostacola la sublime enunciazione delle supreme verità del Paradiso. E non si deve pensare che ad ogni cantica sia riservato uno stile solo, anche se nell’Inferno il tono generale è, necessariamente, più realistico che nel Purgatorio e nel Paradiso. Infatti, anche nel più alto dei cieli si sentono risuonare termini del linguaggio popolare, di crudo e immediato realismo, come nell’episodio, già citato, che ha per protagonista san Pietro. Nella Commedia, Dante elabora e perfeziona tutte le esperienze compiute durante la sua poliedrica attività di scrittore, fino a raggiungere una piena sintesi degli stili. Il significato di questa operazione va ben oltre l’aspetto formale, e coinvolge, invece, il senso più profondo e ultimo del capolavoro dantesco. La versatilità espressiva della Commedia concretizza infatti un’aspirazione fondamentale dell’autore: quella di raggiungere, attraverso la poesia, l’unione organica e indissolubile di tutti gli aspetti del sapere con le sue convinzioni civili e filosofiche, morali e religiose. Anche in questo, come è stato più volte ribadito dalla critica, Dante non si discosta dalla traccia della tradizione enciclopedica medievale, che mirava ad abbracciare in un’unica sintesi la varietà delle umane nozioni. Ma ancora una volta è necessario sottolineare che i legami con l’enciclopedismo spiegano solo in parte la singolarità del poema. Prima di tutto, infatti, Dante mira a realizzare il progetto di conciliare la ragione e la fede, che è l’ambizione di tutte le grandi sintesi medievali, attraverso l’equilibrio tra cultura e sentimenti, tra cielo e terra, tra vita e morte, tra assoluto e relativo. Inoltre, la sua visione del mondo affonda le radici nell’esperienza personale, nel vivo interesse per le vicende sociali e politiche, nelle aspirazioni morali. Egli è animato da una tensione e da un’inquietudine profonde, che non hanno riscontro in nessuno tra i pur numerosi esempi dell’enciclopedismo medievale. Il presupposto dal quale egli muove è la convinta volontà di giungere al bene, battendo la strada di un corretto comportamento civile e di un altrettanto coerente impegno morale e religioso. La sincera e intensa aspirazione dantesca urta però contro la realtà del suo tempo. La società che lo circonda mostra segni evidenti di una profonda crisi di valori e di certezze. Le due grandi istituzioni della civiltà medievale, la Chiesa e l’Impero, gli appaiono corrose fin dalle fondamenta; nessuno sa o vuol far rispettare le leggi. Il comportamento dei singoli, privato o pubblico che sia, è guidato dall’avidità, dalla corruzione, dagli interessi faziosi. La violenza sembra permeare di sé l’intero tessuto sociale e genera una violenza più grande, sempre più disgregatrice. Dante non solo osserva e comprende, ma vive in questa realtà, vi partecipa, ne soffre. Egli, però, è un uomo del Medioevo, profondamente religioso: in lui, la consapevolezza di assistere al crollo di un’epoca, ad un generale sovvertimento di valori, non può limitarsi a un intervento contingente, né tantomeno significare una rinuncia. Egli deve dare una risposta, che serva da monito, che appaia austera, rivelatoria, assoluta, e che non suggerisca la sconfitta, bensì la speranza. Infatti, nella sua salda fede cristiana, gli eventi della storia umana non sono altro che l’eterno ripetersi di uno schema, in cui giustizia e pace sono seguite da sopraffazione e lotta, così come alla felicità dell’Eden seguì il peccato originale. Ma come Cristo ha riscattato una volta la colpa di Adamo, così l’uomo potrà riconquistare la pace e la felicità terrene e aprirsi la strada verso la redenzione e la salvezza eterna. Nel concepire la Commedia Dante offre una risposta alle inquietudini, alle incertezze e alle nefandezze del suo tempo indicando la via della speranza e della fede, che sono poi, com’egli ci dice, profondamente unite. La strada del riscatto è annunciata solennemente attraverso la profezia, che per sua natura è in grado di garantire la certezza del totale rinnovamento dell’uomo e del suo ritorno ad una condizione ideale di purezza interiore e di pace civile. Il poeta ci insegna che la redenzione è possibile: al suo annuncio dà vigore e autorità l’esempio personale di chi, come lui, ha avuto il dono di compiere il viaggio ultraterreno. La sua esperienza dimostra, con l’esempio di un uomo soggetto come gli altri alla continua tentazione e al rischio del peccato, che la salvezza dell’anima è una conquista difficile e irta di ostacoli, ma raggiungibile. Dante è anche, e soprattutto, il veggente, il profeta, che Dio ha investito di una missione: deve indicare quali sono gli elementi che hanno corrotto nel suo insieme il mondo degli uomini, e proporre i rimedi per rinnovarlo e ricondurlo alla purezza originaria. La visione politica di Dante è, già nel momento in cui viene elaborata, superata dalla storia: l’Europa infatti, fra ’200 e ’300, si stava avviando ad abbandonare definitivamente, con la nascita delle nazioni, la concezione unitaria della cristianità medievale. In questo senso possiamo quindi giudicare quella di Dante solo una grandiosa, suggestiva utopia. Ma, nel dar forma a questa utopia, l’autore attinge ad un patrimonio quasi inesauribile di mezzi espressivi, spinto dalla volontà di trasmettere il suo messaggio con la massima efficacia possibile. Anche ciò che più difficilmente si presta ad essere detto in maniera poetica, come gli aspetti dottrinari, teologici e scientifici, trova nella Commedia il suo posto e la sua forma adeguata, e non stona accanto alla meditazione sull’uomo e sulle sue passioni e sofferenze. Gli elementi più diversi, si è detto, si armonizzano e si compenetrano, dando vita ad una poesia variegata e ricca di invenzioni, di sfumature e di toni. Grazie alla forza della poesia, la Commedia può essere letta e goduta anche senza avere piena cognizione dei molteplici e complessi livelli di significato che sono sempre sottesi a quello letterale.
Per rappresentare il suo mondo e per esprimere il suo altissimo ideale, Dante non sceglie né la lingua latina, né il volgare delle sue opere precedenti. Per il suo grandioso progetto, invece, egli ha bisogno di una lingua varia, ricca, composita, che gli consenta di descrivere in ogni sfumatura, e con la massima immediatezza ed efficacia, situazioni, atteggiamenti e stati d’animo. La lingua di cui Dante ha bisogno per la Commedia deve rispondere ad ogni esigenza espressiva, distinguere senza incertezze tra le virtù e i peccati, non lasciare né ombre né dubbi su ciò che separa la verità dall’errore. Il linguaggio che egli elabora e che mette a punto con stupefacenti risultati sa far risuonare lo sdegno ma anche dar voce alla commozione; è capace di addentrarsi con delicatezza e pudore nei sentimenti più intimi, ma si alza forte e autorevole nel rimprovero o nella condanna. Nel Paradiso, poi, Dante affronta il più audace dei tentativi: esprimere con uno strumento umano, con parole concrete, che appartengono al linguaggio e all’esperienza del mondo terreno, ciò che è sovrumano, ovvero che appartiene al mondo di Dio. Questa impresa culmina nella descrizione di quanto Dante ha potuto vedere a conclusione del suo viaggio, ossia il più alto mistero della fede: la Trinità e la duplice natura di Cristo. Dopo Dante, altri sostanziali contributi consentiranno al volgare italiano di raggiungere una totale pienezza espressiva e di conquistare dignità e autorevolezza letterarie: basti pensare a quelli del Petrarca e del Boccaccio. Ma con Dante, o, meglio, con il Dante della Commedia, il volgare esce dall’imitazione e, per la prima volta, supera i modelli derivati dalla tradizione latina e da quella d’Oltralpe, imponendosi come lingua autonoma. Grazie a questa lingua, proprio colui che canta per ultimo un’età che si sta chiudendo diventa il poeta di un’epoca nuova, e uno degli scrittori più moderni e universali.
La
vita nuova
Tra il 1283 e il 1293, nell’arco di un decennio, Dante compone la maggior parte della sua produzione lirica, che comprende oltre alla
Vita nuova e alle Rime, anche il
Fiore e il Detto d’Amore: soltanto in un successivo momento la sua attenzione si sposterà dalla poesia alla teologia e alla filosofia, grazie alla frequentazione dell’ambiente culturale dei domenicani di Santa Maria Novella e dei francescani di Santa Croce. Ma accanto alla recente tradizione provenzale, alla lirica amorosa dei siciliani e del primo Stilnovismo guinizzelliano, Dante unisce la lettura degli autori classici (Virgilio, Cicerone, Ovidio) a quella dei dottori della chiesa e della scolastica (Sant’Agostino, Bonaventura da Bagnoregio, Severino Boezio, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino).
La Vita nuova rappresenta senza dubbio l’ingresso di Dante nell’universo della poesia e del gusto letterario allora dominanti: a Firenze e in Toscana si era formata, già attorno alla metà del Duecento, una nutrita schiera di scrittori e poeti (Chiaro Davanzati, Guittone d’Arezzo, Brunetto Latini, Dante da Maiano fino al contemporaneo e amico Guido Cavalcanti). Il libello si costituisce di una parte in poesia (sono trentuno liriche: 23 sonetti, 2 sonetti doppi, 1 ballata, 3 canzoni, 1 doppia stanza di canzone, 1 stanza di canzone) alternata a capitoli illustrativi, didascalici e meditativi composti in prosa con la funzione di presentare le “ragionate cagioni” che hanno dato luogo ai componimenti (il modello utilizzato è in questo caso quello delle
vidas e delle razos dei canzonieri provenzali). Mentre per quanto riguarda la parte poetica la stesura è dilatata nell’arco di almeno un decennio, tra il 1283 e il ‘93, la composizione degli intermezzi in prosa è da ascrivere agli anni che vanno dal 1292 al 1294. Il libro si articola in 42 capitoli e si configura come il racconto di un grande travaglio sentimentale e spirituale: al centro ovviamente l’amore, antico tema della poesia europea tra i secoli XI e XIV. Il testo si presenta sul piano strutturale come un prosimetrum, un insieme cioè di poesia e prosa sul modello del
De consolatione philosophiae di Boezio.
La presenza della donna amata, che qui è Beatrice, è ingrediente indispensabile e irrinunciabile: il poeta ne parla con reverenza e ossequio, con rispetto e nobiltà di intenti, senza mai cedere alle illusioni di un sentimento fisico, materiale, temporale. Beatrice, che secondo la tradizione sarebbe morta nel 1290, assume cosi il valore di una proiezione divina, pretesto e figura simbolica di un amore del tutto idealizzato, spiritualizzato: la “gentilezza” di Beatrice consiste nella ricchezza interiore e nella nobiltà d’animo che proviene dalla sua presenza, e la sua bellezza è piuttosto un rispecchiamento dell’amore di Dio che una reale avvenenza fisica. Beatrice è appunto espressione di una beatitudine morale e provvidenziale: il suo apparire, un altro motivo chiave della
Vita nuova, è un evento miracoloso che amplifica la sua presenza attraverso il compiacimento spirituale dell’uomo. In questo risiede probabilmente la differenziazione tra Dante e Cavalcanti, ma anche tra Dante e la poesia siciliana:
la donna come evento simbolico in chiave religiosa, come esperienza esemplare di avvicinamento a Dio, mentre nei rimatori della corte federiciana l’amore aveva assunto tonalità molto meno spirituali e più inclini al sentimento del desiderio e della passione. La poesia della Vita nuova tende a trascendere i dati materiali, le connotazioni temporali, per assumere livelli di spersonalizzazione dalla propria esperienza: l’amore, la bellezza, la magnanimità che provengono da Beatrice non sono elementi reali e concreti di un sentimento vissuto e consumato, ma tendono a divenire idealizzati, liberandosi dal momento storico dell’esperienza. Ciò che conta è la permanenza stessa dell’idea dell’amore, della donna come idea assoluta fuori dalla storia.
Non ci sono dubbi circa la fedeltà della Vita nuova a un impianto tematico di tipo stilnovistico: il senso di continuità con la lezione di Guinizzelli viene spesso ribadito da Dante, anche nelle sue opere successive, ed è certo che il corredo degli artifici retorici, dei significati e delle strutture portanti ha un suo fondamento proprio se inserito nel solco della lirica d’amore del Duecento siciliano e tosco-emiliano. Alcune caratteristiche di quest’opera giovanile fanno pensare a un vero e proprio
“libro di formazione”, secondo una terminologia largamente diffusa nella critica letteraria novecentesca: la vena intimistica e confessionale della scrittura assume spesso, fino dall’incipit (“in quella parte del libro de la mia memoria”), il tono della ricerca psicologica, di una auto-poiesi, riconoscimento e individuazione di sé attraverso la scrittura. Dunque
un romanzo di formazione, opportunamente messo in corsivo perché di genere romanzo non si tratta, e al tempo stesso
storia di un’anima colta nel momento del suo ingresso nel mondo dei grandi, nel complesso delle passioni e dei sentimenti degli adulti: una vicenda da leggere come storia di un evento lirico, apparizione e insieme miracolo della parola.
L’altro aspetto è dato dalla presenza della memoria, anzi dalla memoria come impulso iniziale, energia promotrice di tutto l’impianto: mentre la Bildung, la cultura che nasce dalla scrittura, presuppone la costruzione della coscienza individuale dello scrittore nel contesto storico di un avvenire più o meno vicino nel tempo, diversamente il motivo della memoria innesca un procedimento a ritroso nel passato, cioè nell’amore ricordato, vissuto come rimpianto, emozione trascorsa, come sentimento del tempo perduto. E c’è nella Vita nuova anche questo aspetto, esattamente dove Dante rievoca Beatrice morta: dunque la donna è spazio intermedio tra l’amore e il riconoscimento di sé, tra il fuori e il dentro dello scrittore. L’intenzione auto-apologetica si mescola all’autobiografia, ma sullo sfondo rimane la capacità del linguaggio di sostenere una materia di altissima qualità formale: in più,
Dante getta le basi per un incontro fatale, quello appunto con Beatrice, donna tutta spirituale e unico tramite che lega l’esperienza della giovinezza alla maturità della Commedia.
Rime
Accanto alla produzione lirica che Dante inserisce nella Vita nuova si collocano le rime cosiddette “estravaganti”, una produzione dilatata nell’arco di circa venticinque anni, tra il 1283 e il 1307-08, data certa dell’ultima canzone (O montanina mia canzon). Una produzione varia per temi e sondaggi stilistici, in certi aspetti addirittura alternativa allo stilnovismo della
Vita nuova, ma che risulta perfettamente inserita in un preciso percorso espressivo fortemente incline alla sperimentazione. Il
pluristilismo dantesco ha modo, nelle Rime, di
porsi come un tratto dominante e decisivo di quella poetica: non
un’esperienza estemporanea e frammentaria, dunque, ma una
sostenuta e consapevole ricerca delle enormi potenzialità della
lingua italiana.
In totale il corpus delle Rime conta 54 componimenti: 34 sonetti, 15 canzoni (tra cui due stanze isolate, cinque ballate. Se gli inizi poetici di Dante gravitano ancora nell’orbita di Guittone e Dante da Maiano, in sostanza entro la prospettiva dei siculo-toscani, l’equilibrio a cui egli mira si sposta continuamente in avanti (secondo un atteggiamento che Contini ha chiamato “tormento della dialettica” e che bene riassume la condizione del Dante giovane), dapprima con l’accettazione della dottrina cavalcantiana
dell’amore e quindi con la personale conquista di una lingua e
una poetica dense di complessità intellettuali.
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Il Convivio
Tanto nel Convivio quanto nel De vulgari eloquentia lo sradicamento dello scrittore dal tessuto culturale di Firenze si pone nei termini di una volontà di rivincita e di rinascita. Dante ha ormai chiara la strada della lingua letteraria: con la
Vita nuova la nobiltà del volgare italiano gli è apparsa in tutta la sua grandezza e potenzialità. La rifondazione di una letteratura extra-municipale parte proprio dalla scelta del volgare come strumento di divulgazione e di apertura al nuovo ceto intellettuale: tuttavia in Dante ricompaiono anche le difficili questioni dottrinali che nel libro giovanile erano state risolte alla luce della teoria stilnovistica dell’amore.
Con il Convivio, progettato all’inizio in 15 libri (di cui uno proemiale),
Dante sperimenta il trattato filosofico-morale, ma secondo un impianto originale che ricorda in parte quello della Vita nuova: prosa e poesia insieme, la prima che serve da commento alla seconda. Il Convivio venne iniziato nel 1304, poco prima del
De vulgari, ma restò incompiuto all’altezza del libro IV; subì alcuni rallentamenti proprio in concomitanza con il
De vulgari e venne poi definitivamente abbandonato intorno al 1307.
L’enciclopedismo medievale, di cui Dante è ben informato anche sotto il profilo della filosofia morale, emerge nel Convivio con grande evidenza e dovizia di citazioni: l’intento dell’opera è consapevolmente divulgativo
e didascalico. Con il Convivio Dante intende rivolgersi a un
nuovo e più ampio e moderno pubblico di lettori e non soltanto a
una ristretta cerchia di dotti e di letterati, gli unici in
grado di intendere il latino.
I modelli culturali del Convivio sono facilmente
rinvenibili nelle summae medievali che avevano allora una
grande diffusione presso gli intellettuali: si va dalla Summa theologica di Tommaso d’Aquino (XIII sec.) alla
Etymologiae di Isidoro di Siviglia (VI sec.): tuttavia furono decisivi per questo libro il
De consolatione philosophiae di Severino Boezio (che si
rivelerà testo chiave per tutta la letteratura umanistica del Tre-Quattrocento), i commenti tomistici all’Etica e alla
Politica di Aristotele, il De amicitia di Cicerone, le opere morali di Seneca, le
Confessioni di Sant’Agostino, l’aristotelismo di Alberto Magno, quest’ultimo mediatore delle correnti averroistiche.
Il De vulgari eloquentia
Nel De vulgari eloquentia il volgare trova una sistemazione, un riordinamento generale e non soltanto dal punto di vista linguistico ma anche letterario. Dante si fa critico della letteratura italiana, riconosce il
proprio debito nei confronti della tradizione, ma emette giudizi
anche molto duri verso alcuni poeti a lui contemporanei come Bonagiunta da Lucca o Guittone
d’Arezzo, tacciati di municipalismo. Nel De vulgari, Dante si rivolge ai dotti e a una cerchia di specialisti con l’intenzione di difendere la nobiltà del “volgare illustre”, per esaltarne le doti e le capacità letterarie: ha bisogno perciò di scrivere in latino per dare credibilità scientifica a un messaggio che è indirizzato a una élite culturale.
Il De vulgari nasce tra il 1303 e il 1305, quindi durante i primi anni dell’esilio e nello stesso periodo in cui Dante lavorò al
Convivio.
Il trattato rappresenta un vero e proprio punto di svolta di tutta la riflessione artistica e culturale del poeta: la sua
incompiutezza (il libro restò interrotto a metà di II, xiv) indica
la continua elaborazione di un personale percorso intellettuale,
rivolto al chiarimento progressivo di contenuti e materiali linguistici e letterari. Questa volontà di ricapitolazione e di sintesi è confermata, ad esempio, dalle autocitazioni, dai costanti richiami alla propria opera e da richiami alla condizione biografica dello scrittore esule.
Dante affronta in modo specifico la questione della lingua naturale (vulgaris locutio) rispetto al latino, considerato come lingua scritta, regolata da norme e prescrizioni tipicamente grammaticali (il latino è appunto una
gramatica). Rispetto al latino, lingua artificialis, il volgare ha il merito di essere una lingua in movimento, in evoluzione e trasformazione, insomma una lingua viva e dinamica, a differenza del latino che è una lingua morta, e quindi codificata e irrigidita entro un canone convenzionale.
Di più: Dante intuisce che il latino, di cui i letterati si servono nei loro scritti, non è neppure quello classico e elegante di Cicerone o di Virgilio, ma è una lingua standard tramandata dalla tradizione dei grammatici del III e IV secolo d.C., insomma una lingua della bassa latinità impoverita dalla grande crisi di identità linguistico-culturale
che colpi allora l’Impero romano.
Dante è interessato soprattutto a mettere a punto una teoria
della lingua letteraria che scavalchi i regionalismi e le
anguste questioni municipalistiche. Non esiste, a detta di
Dante, un volgare che per la sua nobiltà e superiorità si
distingua e si affermi sugli altri, esistono invece le
condizioni per una pluralità di dialetti e di parlate locali. La
sua analisi si occupa ovviamente dell’area geografica italiana,
che il poeta suddivide adoperando criteri oggi inaccettabili.
Comunque Dante individua la caratteristica di fondo di questa
situazione: la perenne e insanabile spaccatura linguistica
riscontrabile nella penisola italiana, che è un fatto
antropologico, ma anche politico.
Nella stesura del De vulgari, Dante si rifà ai trattati della retorica classica: la
Rhetorica ad Herennium (che nell’antichità era attribuito a Cicerone), il
De inventione di Cicerone, l’Ars poetica di Orazio, alcune opere medievali tra cui l’Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, la
Poetria nova di Goffredo di Vinsauf, il Tresor e la
Rettorica di Brunetto Latini, la Poetria di Giovanni di Garlandia, il
Laborintus di Eberardo il Tedesco.
E proprio nel trattato del Garlandia, Dante trovava la classificazione tripartita degli stili (tragico, comico ed elegiaco).
Nel De vulgari diventa chiara la volontà di Dante di
superare la tradizione. Egli intende rifondare la tradizione. Il volgare illustre diviene così non una lingua che esclude i regionalismi, bensì la forma letterariamente più alta tra i linguaggi disponibili, così come lo stile tragico non elimina tutti gli altri, ma li supera per qualità e prestigio.
Nel libro I del De vulgari Dante tratta una materia eminentemente linguistica: affronta la natura, l’origine e la storia del linguaggio dalla lingua unica di Adamo alla confusione babelica delle parlate (I, i-x); passa
poi in rassegna i dialetti italiani in quanto negazione del volgare illustre (I, xi-xv), che infine definisce nella sua particolarità (I, xvi-xix).
Oggetto del libro II è invece l’applicazione del volgare
illustre alla poesia, cioè la sua straordinaria versatilità
stilistica e letteraria.
Dante riconosce al volgare quattro attributi fondamentali (I, xvi-xviii), definendolo
illustre, cardinale, aulico e
curiale. Illustre in quanto dal volgare proviene una luce nuova che illumina il territorio della letteratura, e in quanto ricco di potenzialità sintattiche, lessicali, morfologiche.
Cardinale perché, simile al cardine di una porta, attorno al volgare ruotano i restanti dialetti: esso è dunque la struttura portante dell’intero sistema linguistico-letterario.
Il volgare è aulico perché degno di essere parlato presso le
corti, e curiale perché il suo uso si allarga alle strutture
politiche che avrebbero il compito di unificare le varie regioni
italiane; aulico e curiale rispondono più che altro a una
domanda politica, ed entrambi sono da contrapporsi al concetto
di municipalità.
Il volgare illustre di Dante risulta alla fine una costruzione che procede su due
linee distinte: da una parte esso è linguaggio parlato, vivo e dinamico; dall’altra parte contribuisce a fondare una base squisitamente letteraria. Nell’ottica del
De vulgari i linguaggi si diversificano secondo cause e origini bibliche: dall’unico linguaggio edenico si sono
prodotte infinite combinazioni, l’incomunicabilità è la conseguenza del peccato originale, la scala dei valori dispone gerarchicamente Dio, Natura e Arte. La grande tripartizione linguistica europea, secondo il parere di Dante, comprende la lingua d’oïl (Francia settentrionale), la lingua d’oc (Francia meridionale) e la lingua del si (la penisola italiana): all’interno di questa ultima conformazione geografica Dante distingue i vari dialetti italiani,
utilizzando la catena appenninica come spartiacque territoriale e linguistico.
Il significato scientifico dell’operazione è senz’altro molto discutibile, ma per Dante è il punto di partenza per una serie di violente invettive contro alcuni dialetti assolutamente incapaci di assumere il ruolo di volgare illustre. E in questo viaggio in Italia alla ricerca di una lingua
che vada oltre le singole municipalità, Dante lancia accuse pesanti contro tutti, compreso il fiorentino: al bando, uno dopo l’altro, vengono messi il romanesco, definito “tristiloquium”, i dialetti della Marca anconetana e della “Tuscia”, (Perugia, Orvieto, Civita Castellana, Viterbo), il Sardo, il dialetto genovese, il romagnolo di Forlì (troppo effeminato), il bresciano, il veronese, il vicentino e il padovano. Le invettive si estendono poi alla letteratura: si salvano soltanto Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia; ma per Guittone d’Arezzo e Bonagiunta da Lucca non c’è scampo: vengono tacciati di provincialismo e di presunzione e liquidati come poeti minori.
La seconda parte del De vulgari tratta la questione degli stili, dei metri e dei generi letterari.
Proprio grazie al volgare, Dante opera una scelta pluristilistica e plurilinguistica. Dal punto di vista metrico individua nell’endecasillabo il verso lirico
per eccellenza, da preferire nei componimenti di tono tragico e riconosce alla canzone il ruolo indiscusso tra i generi poetici.
Il De Monarchia
Composto in latino per motivi analoghi a quelli indicati a proposito del
De vulgari eloquentia, e per il suo interesse sovranazionale, il
De Monarchia (La monarchia) è un trattato in tre libri, dalla struttura perfettamente razionale. Dante vi espone le proprie posizioni politiche, molte delle quali saranno approfondite nella
Commedia. La data di composizione è da collocarsi tra il 1312 e il 1317, nell’arco di tempo compreso tra la discesa in Italia di Arrigo VII e l’elezione al pontificato di Giovanni XXII.
Nel primo libro, si sostiene la necessità dell’Impero universale, l’unico in grado di garantire il benessere degli uomini, poiché è fondato sulla pace e sulla giustizia. L’imperatore, infatti, che possiede tutto, non si lascia coinvolgere dall’avidità e dalle bramosie che inducono alla guerra. La nascita di Cristo sotto il potere di Augusto viene portata a riprova di questa tesi, poiché dimostra che Dio ha voluto riconoscere l’autorità imperiale.
Nel secondo libro, Dante afferma che il popolo romano basò il proprio potere sul diritto (ius), derivante direttamente
dalla volontà di Dio. I Romani, discendenti di Enea e dotati di altissima virtù, non avrebbero potuto dominare sugli altri popoli se Dio non avesse favorito le loro gloriose gesta. La nascita e la morte di Cristo sotto il loro impero ne sono una conferma.
Nel terzo libro, si affronta lo spinoso problema dei rapporti fra potere temporale e potere spirituale. Dante sostiene che ambedue sono voluti direttamente da Dio e che pertanto non debbono subire reciproche interferenze.
Il primo spetta all’imperatore, il secondo al papa. L’autore confuta la tesi di una presunta superiorità del papa, basata sull’interpretazione delle Sacre Scritture, e afferma la nullità della Donazione di Costantino,
anche se la ritiene autentica. Infatti l’imperatore aveva il compito di preservare l’unità dell’Impero e non poteva pertanto alienarne una parte; d’altro canto, il papa non avrebbe dovuto violare il precetto evangelico che vieta il possesso di beni temporali alla Chiesa. L’imperatore deve essere quindi indipendente dal papa, e mentre guiderà gli uomini alla felicità terrena, al pontefice
toccherà io compito di condurli verso la salvezza spirituale, ferma restando la “reverenza” che il primo deve al secondo come un figlio al padre.
Il De Monarchia è un’opera fondamentale sia per capire il pensiero politico di Dante che per interpretare tanta parte della
Commedia. Traspare dal suo interno il vivo interesse di Dante per la definizione di una formula che coniughi un corretto vivere civile con una religiosità integra e coerente. Soltanto attraverso il perfetto e costante equilibrio fra questi valori, infatti, l’uomo potrà conquistare la pace in
terra e la beatitudine nell’aldilà. Interpretato, a torto, come un’asserzione della superiorità del potere imperiale su quello papale, e usato a fini politici e propagandistici dai sostenitori di questa tesi, nel 1329 il
De Monarchia fu bruciato come testo eretico e più tardi, nel Cinquecento,
collocato nell’Indice dei libri proibiti. Ne uscì solo nel 1881, grazie al papa Leone XIII.
Le Epistole
Le
Epistole sono tredici lettere, tutte in latino, giunte a noi sciolte, attraverso vari codici. È perciò legittimo supporre che si tratti solo di una parte di quelle che Dante scrisse: un sospetto confermato da testimonianze soprattutto di epoca umanistica, che riferiscono di almeno una lettera inviata ai fiorentini (forse dopo la battaglia della Lastra, nel 1304), e una a Cangrande della Scala (nel 1310).
Obbedendo alla regola classica, accettata durante tutto il Medioevo e oltre, secondo cui
l'epistola costituiva un vero e proprio genere letterario, la scrittura epistolare di Dante si adegua ad una precisa codificazione retorica e ad uno stile sostenuto, rispettoso delle regole del
cursus.
Di particolare interesse sono le tre epistole (V, VI,VII) collegate alla discesa di Arrigo VII in Italia, che
magnificano la missione dell'imperatore.
D'altro tono è l'Epistola III, inviata a Cino da Pistoia: in essa Dante risponde affermativamente alla domanda dell'amico, se l'anima, dopo la fine di un amore, possa aprirsi del tutto ad uno nuovo, inviandogli il sonetto Io sono stato con Amore insieme.
Una pagina importante della biografia dantesca è l'Epistola XII, rivolta ad un amico fiorentino non identificato: il poeta vi rivendica la propria innocenza e rifiuta il ritorno in patria alle condizioni umilianti che gli verrebbero imposte.
Un rilievo a sé merita infine l'Epistola XIII, indirizzata a Cangrande della Scala unitamente all'intera cantica del
Paradiso (o ai suoi primi canti, secondo un'altra ipotesi). La critica contemporanea tende ormai, con poche
eccezioni, ad attribuirla a Dante. Dubbia è la datazione, che oscilla fra il 1315 e il 1317. Si divide in due parti di diverso
carattere: la prima è una dedica del Paradiso al signore di Verona, per ringraziarlo della sua ospitalità e protezione; segue una specie di guida alla lettura della
Commedia, alla sua interpretazione e al duplice significato, letterale e allegorico, che le va attribuito.
Le Egloghe
Nel 1319 o 1320, il grammatico Giovanni del Virgilio, retore presso l'università di Bologna, spinse Dante a comporre un poema in latino, l'unica lingua, a suo giudizio, che fosse in grado di esprimere una materia tanto nobile e di assicurargli la corona poetica. Più tardi lo invitò a Bologna, suo ospite. Dante rispose con due
Egloghe di modello virgiliano: nella prima, dichiarava di aspettarsi proprio dall'opera in volgare (stava componendo il
Paradiso) la fama sperata; nella seconda, respingeva l'invito,
a causa del timore che nutriva nei confronti di un potente personaggio bolognese che gli era ostile.
Le Egloghe, più che per l'argomento, sono interessanti per la scelta dello stile pastorale, che Dante dimostra di saper
usare alla perfezione.
La Questio de aqua et terra (Questione dell’acqua e della terra), ritrovata solo nel 1508, ma di sicura attribuzione, è un breve trattato che raccoglie le argomentazioni lette da Dante a Verona nel 1320 a proposito del livello delle acque rispetto a quello delle terre emerse. È un’opera minore, di impianto aristotelico-tomistico, che fu suggerita, probabilmente, dalla volontà di dimostrare la propria conoscenza delle teorie scientifiche accettate dalla Chiesa e di evitare così nuove accuse di eresia.
Riferimenti bibliografici:
La Letteratura Italiana in Cd-Rom, Roma, Gruppo
Editoriale L'Espresso, 2003