copertina libroUn libro di self help che ci mette in guardia contro tutti i libri di self help. A scriverlo è Svend Brinkmann (1975), filosofo e professore di Psicologia alla Aalborg Universtity (Danimarca).

La sua filosofia contro l’”auto-aiuto” si incentra su sette punti, che corrispondono ad altrettanti capitoli del libro:

  1. Smetti di guardarti l’ombelico
  2. Concentrati sul negativo
  3. Indossa il cappello del no
  4. Reprimi i tuoi sentimenti
  5. Licenzia il tuo coach
  6. Leggi un romanzo, non un libro di autoaiuto o una biografia
  7. Soffermati sul passato

Contro una società liquida che ci incita continuamente al miglioramento, al cambiamento, all’adattamento, alla flessibilità, che vuole fare di noi degli individui “impiegabili” e graditi alle organizzazioni, alle quali interessa unicamente il profitto e non il nostro benessere, Brinkmann ci invita a stare fermi, ad esercitare la sana virtù del dubbio e dell’esitazione, a negarsi alle continue richieste dell’ambiente, a liberarsi di guru, coach, trainer, counselor e terapeuti che imperversano ormai anche in Rete (una piattaforma come Youtube ne è piena), per rivolgersi alla filosofia, in particolare allo stoicismo di Seneca, Epitteto, Marco Aurelio e Cicerone, e alla grande letteratura. Strumenti che aiutano a comprendere la vita e a difenderci da chi, con la scusa di liberarci, vuole invece opprimerci.

Brinkmann ci invita a diffidare dell'introspezione, declassata dall'autore a “guardarsi l’ombelico”, a fidarsi della ragione e della razionalità piuttosto che dei sentimenti e delle pulsioni viscerali e”istintuali”, a farsi guidare nell’azione da principi etici, a dire un fermo no a quello che non ci convince, a rivalutare la tradizione e il conservatorismo, a lasciare spazio alla tristezza e alle lamentazioni. A saper distinguere tra vita pubblica e vita privata, liberandosi dal mito del progresso, della costante autenticità e dai diktat del nuovo conformismo introdotti dalla vera e propria Società Terapeutica in cui viviamo.

La nostra è un’epoca di accelerazione (si veda il saggio di  H. Rosa, Accelerazione e alienazione)”, che miete molte vittime e che fa dell'uomo un essere sradicato. In un presente così vorticoso, numerosi individui si perdono per strada, incapaci di reggere alle richieste che li spingono al miglioramento continuo di sé e per le quali ogni traguardo raggiunto è insufficiente. I sentimenti di inadeguatezza si moltiplicano, così come le esistenze che faticano a trovare un significato.

La lettura del saggio di Brinkmann mi ha lasciato delle sensazioni contraddittorie. Anzitutto non condivido la sua condanna dell’introspezione e la scarsa considerazione per la vita interiore, che, tra l’altro, è in contraddizione con la sua esortazione a leggere romanzi. Ora, il romanzo moderno, almeno da Flaubert in poi, passando per James, Proust, Woolf e Joyce, è soprattutto analisi degli stati interiori. Per Nabokov non esiste romanzo di  qualità che non sia anche “romanzo psicologico”. Le tecniche del discorso indiretto libero e del flusso di coscienza sono state create proprio per rendere vivo ed evidente il mondo interiore dei personaggi. Senza valorizzare il processo introspettivo ciò non sarebbe possibile.

D'accordo, sono molto importanti le nostre azioni e i nostri stati interiori sono in parte condizionati dall'ambiente storico e sociale che ci circonda. Però "in interiore homine habitat veritas", diceva già Sant’Agostino. E personalmente credo non ci sia condizione più favorevole per il benessere di una persona dello sviluppo di un dialogo interiore evoluto, continuo e armonioso. Chi non intrattiene con l’altro da sé che lo abita, con la sua parte non razionale, un rapporto dialettico soddisfacente è da compiangere. Intratterrà con se stesso, con le proprie esperienze e con il mondo un rapporto superficiale. Tra l’altro come decidiamo di dire no alle richieste esterne, se non diamo ascolto ai nostri stati interiori, a quello che proviamo, alla nostra ragione che è fatta anche di una (consistente) parte di intuizione, istinto e irrazionalità.

Poi Brinkmann se la prende con la costrizione attuale alla “lifelong learning”. Ora, se c'è una pratica colpevolmente disattesa dalla nostra società è proprio questa. L’educazione permanente, elogiata a parole, viene poi negletta nei fatti. Essa, al contrario, dovrebbe costituire un diritto dell'individuo, che dovrebbe poter godere di periodi di tempo, nell'arco di tutta la sua esistenza, da dedicare, se lo vuole, allo studio e all’aggiornamento. Apprendere è una delle esperienze più gratificanti per un essere umano. Per Brinkmann ci sono persone refrattarie ad imparare cose nuove e per lui è ragionevole lasciarle in pace.

Riguardo al cambiamento io lo amo (almeno nel campo delle idee e degli atteggiamenti) e amo la velocità (studiato a scuola, il futurismo è un’avanguardia che mi ha da subito affascinato, eccetto l’aspetto guerrafondaio), almeno quanto la lentezza. Dipende dai contesti. Per me, che sto dalla parte di un rinnovamento incessante dei punti di vista, il conservatorismo e la tradizione hanno valore, ma sempre passati al vaglio del pensiero critico.

Brinkmann considera la malattia e il dolore in genere situazioni esclusivamente negative, disgrazie inevitabili da accettare appunto con stoicismo. Forse le cose non stanno esattamente a questo modo. Il dolore, la sofferenza, la malattia possono generare significato e conoscenza. Possono rendere più incisivo il nostro pensiero, possono riorientare i nostri valori. Basta leggere La Montagna incantata di Thomas Mann in cui la malattia costituisce l’elemento trasformativo della personalità del protagonista. È sufficiente leggere le pagine che alla malattia dedica Dostoevskij, o Cioran, oppure cosa dice sul dolore la saggezza greca attraverso i suoi tragediografi.

Insomma, un libro a tratti esaltante e talora respingente, che merita comunque di essere letto con attenzione.

ordina