
Bouvard e Pécuchet rappresentano, nell'immaginario collettivo dei lettori e dei critici, due sciocchi, due allocchi, due grotteschi piccolo borghesi, animati dalla passione per l'erudizione ma incapaci di comprendere davvero. Due individui superficiali di cui burlarsi. È un noto e diffuso meccanismo di difesa quello di attribuire la stupidità esclusivamente agli altri. È rassicurante pensarlo. Eppure quanto ci somigliano Bouvard e Pécuchet, nella loro nobile aspirazione a un sapere enciclopedico e quanto somigliano a Flaubert stesso, che nella sua vita si sforzò di studiare le discipline più diverse. Soltanto prima di stendere il suo romanzo incompiuto, pubblicato dopo la sua morte, nel 1881, si dice che lo scrittore normanno abbia compulsato almeno 1500 volumi. Se "Madame Bovary c'est moi", Bouvard e Pécuchet lo sono ancora di più, fino a diventare una sorta di autobiografia intellettuale dell'autore e, in fondo - forse soprattutto - anche nostra. Quanto sapere e che varietà di conoscenze albergano nel cervello dei due copisti. I quali finiscono col perdersi nel magma di concetti, idee, classificazioni, reperti, nomenclature, letture. Il sapere comporta inevitabilmente contraddizioni, dubbi, fatica, sofferenza. La conoscenza umana si rivela presto una piccola isola in un mare di ignoranza. Pur dopo studi approfonditi, niente può essere affermato in maniera sicura e definitiva. Tutto appare alla fine avvolto nel mistero. La sete di conoscenza viene frustrata dal contrasto delle idee, delle osservazioni, delle esperienze, delle teorie. La mente umana non trova pace in nessuna costruzione teorica, nessuna opinione, nessun sistema filosofico. Una conoscenza, quella umana, insufficiente, imperfetta e allo stesso tempo talmente ampia che non la si può dominare. Un labirinto del quale è impossibile venire a capo. Che mette in crisi l’idea stessa, illuminista, di progresso, su cui si appunta la satira amara di Flaubert. È tutto inane, è tutta una follia il sapere; tutto è irrimediabilmente vanità.
La montagna di libri che abbiamo alle spalle non ci permette di liberarci dal demone dell’incertezza. Parole e cose non combaciano. I temi del romanzo sembrano essere la delusione, le speranze disattese. L'ottimismo positivista viene annientato. I due copisti si rivelano essere due don Chisciotte della conoscenza. Le loro peripezie assomigliano a quelle del Candide di Voltaire. Un romanzo dunque amaro, in cui la comicità in superficie nasconde una profonda inquietudine. E non è perché Bouvard e Pécuchet sono due autodidatti il motivo per cui falliscono. Anche i notabili del luogo e le autorità, quelli che oggi vengono definiti, con un'espressione roboante, l’"elite della società", non ne escono meglio, a comprovare “l'asineria di quelli che passano per sapienti”, l'insipienza irriducibile di aristocratici, accademici e potenti, per tacere del popolo minuto, abbarbicati tutti quanti alle loro quattro certezze, ai loro tranquillizzanti luoghi comuni.
Essi mettevano in dubbio l'onestà degli uomini, la castità delle donne, la perspicacia del governo, il buon senso popolare, insomma minavano le fondamenta.
Foureau si preoccupò, e minacciò di arrestarli se avessero continuato.
L'evidenza della loro superiorità feriva. Sostenendo tesi immorali, dovevano essere immorali; furono fatte circolare delle calunnie.
Fu allora che si sviluppò nel loro animo una sciagurata facoltà, non tolleravano più la stupidità.
E così i nostri due (anti)eroi devono fare i conti non soltanto con i loro limiti e miserie, ma anche col conformismo di coloro che li circondano, con le idees reçues e le ipocrisie con cui i privilegiati ammantano la loro posizione sociale e le loro sicurezze. Il loro modo di pensare così radicale mette in pericolo i due ex impiegati e nello stesso tempo li rende estranei alla società. Le loro argomentazioni, ingenue forse, ma basate sul ragionamento logico, le loro obiezioni, mettono in crisi le certezze inverificate dei borghesi.
Un grande romanzo, dunque, ancorché incompiuto, ironico e dissacrante, un classico perché si rivela in grado di leggere ancora e di dialogare con il nostro presente, la contemporaneità. Un’opera più che mai aperta che si presta a una miriade di interpretazioni. Nel sapere e nelle sue contraddizioni, nello scontro di opinioni radicalmente differenti, Bouvard e Pécuchet, come tutti noi oggigiorno, si perdono e rimangono frustrati, preda di un'immedicabile angoscia esistenziale.